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    Coronavirus, il plasma degli immuni funziona? Cosa c’è da sapere

    Di Massimiliano Fanni Canelles
    Pubblicato il 6 Mag. 2020 alle 15:33

    Coronavirus, il plasma degli immuni funziona? Cosa c’è da sapere

    Proviamo a fare un po’ di chiarezza sulla terapia con plasma iperimmune per il Coronavirus. Per ottenere un concentrato di anticorpi (immunoglobuline) contro il Covid-19 dal sangue di un paziente infettato bisogna eseguire una procedura chiamata plasmaferesi. Questa separa gli elementi corpuscolati del sangue mediante centrifugazione o filtrazione. Questa tecnica è conosciuta ed utilizzata da tempo.

    Fu inventata dai dottori Abel e Rowntree nel 1913 e poi sviluppata dal dottor Lucas nel 1950. Ancor prima di questo periodo si conosceva già un metodo rudimentale per estrarre dal sangue di pazienti infetti il siero (ricco di immunoglobuline) per utilizzarlo a scopi terapeutici. Nel 1890 Von Berhing e Kitasato dimostrarono per la prima volta che il siero ematico doveva contenere sostanze capaci di combattere l’infezione se originava dal sangue di un paziente infetto da quell’infezione.

    L’utilizzo terapeutico della plasmaferesi per ottenere concentrati di immunoglobuline plasmatiche (plasma iperimmune) è stato fatto anche recentemente per combattere l’epidemia di Ebola del 2013 e la Sars-CoV-1 del 2003. Da segnalare che l’utilizzo del plasma in malattie come Aidso la normale influenza non ha invece portato benefici.

    L’uso del plasma per la cura della Sars-CoV-2 (il Coronavirus, ndr) è cosa dibattuta nella comunità scientifica e pubblicata già su varie riviste come Lancet. In Cina le prime sperimentazioni risalgono al 20 gennaio 2020. In Italia è stata scelta recentemente negli ospedali di Pavia e Mantova. I risultati sono stati da subito incoraggianti. L’effetto terapeutico è veloce e senza grossi effetti collaterali, se non in casi di ipersensibilità del ricevente alle componenti plasmatiche di un altro individuo o di squilibrio nei processi coagulativi, di per sé già compromessi da Covid-19.

    Purtroppo, però, ottenere grandi quantità di plasma con immunoglobuline attive contro il Coronavirus non è facile. I candidati devono essere pazienti che hanno avuto la malattia e che sono guariti completamente dalla Sars-CoV-2. Non devono avere altre infezioni (epatiti ed Hiv per esempio) e non devono aver avuto reazioni anticorpali gravi nella loro vita. Devono essere uomini o donne che non hanno avuto gravidanze perché la gestazione crea un sistema anticorpale complesso che può dare reazione al ricevente.

    Ci devono essere tutti i requisiti previsti dalla legge che serve a tutelare donatori e trasfusi. Ogni donatore può donare massimo tre volte e il suo plasma può aiutare al massimo due pazienti. Il risultato è che non disponiamo di tanti possibili donatori come servirebbero. Numeri che non si addicono, quindi, a terapie applicabili su larga scala. Inoltre non sappiamo quanto rimanga efficace la risposta anticorpale nel tempo. Infine, riguardo al costo, come potere comprendere, questo non è elevatissimo ma di certo non si può parlare di terapia a costo zero. Tutto il resto sono fake news.

    Alcune ulteriori considerazioni: visto che l’infusione di plasma con immunoglobuline concentrate (o iperimmune) rappresenta una terapia solo emergenziale, servirebbe studiare e comprendere quali sono gli anticorpi efficaci, isolarli, purificarli e poi somministrare solo quelli in dose controllata e farmacologica. Come avviene per le immunoglobuline antitetaniche, ad esempio. Una procedura che trasforma quello che adesso è una donazione di immunoglobuline in un vero e proprio prodotto farmaceutico.

    Infine è da sottolineare che la donazione di plasma con immunoglobuline concentrate (o iperimmune) non ha nulla a che vedere con la realizzazione e l’utilizzo di anticorpi monoclonali, come quello recentemente identificato capace di neutralizzare il virus SarCov2 descritto sulla rivista Nature Communications. In questo caso i ricercatori dell’università di Utrecht hanno prodotto l’anticorpo 47D11 ricavandolo da anticorpi ‘chimera’, cioè derivati da cellule umane e di ratti.

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