Coronavirus, conferme sulla cattiva gestione al Pio Albergo
Nuove testimonianze allarmanti arrivano dal Pio Albergo Trivulzio, la casa di cura di Milano al centro di un’inchiesta giudiziaria per non aver garantito le adeguate protezioni al personale e agli ospiti all’inizio dell’emergenza Coronavirus, e in cui 100 persone sono morte in modo sospetto tra marzo e aprile. “Il 23 febbraio è stato il mio ultimo giorno al Pio Albergo Trivulzio. Sono stata cacciata perché mi sono rifiutata di togliere la mascherina che, secondo una dirigente, allarmava i pazienti”, ha detto all’Agi un’operatrice socio sanitaria della casa di cura milanese, che ha preferito rimanere anonima.
“Quel 23 febbraio avevo, come da molti giorni, una forte tosse e la febbre. Al mattino, un’infermiera mi ha consigliato di indossare una mascherina, visto che da poco si era venuti a conoscenza del primo caso di Coronavirus. Ho fatto come mi ha detto. Poi, ho incontrato la ragazza che fa le pulizie, anche lei aveva la tosse e lo ho suggerito di mettersi la mascherina. Lei lo ha fatto, poi, verso mezzogiorno, è venuta da me e mi ha riferito di toglierla perché era stata sgridata e minacciata di licenziamento se l’avesse tenuta”, ha continuato la donna.
L’operatrice aveva paura di contaminare il cibo che doveva somministrate i malati, e per questo ha deciso di continuare a indossarla.”Verso le 12 e 30, mentre stavo dando da mangiare ai pazienti, è arrivata una dirigente che mi ha invitato a togliere la mascherina perché stavo suscitando allarme ingiustificato negli ospiti. Ho obiettato che mi era stato consigliato dall’infermiera, ma lei ha risposto che le altre mie colleghe non ce l’avevano. Ho fatto presente che io però avevo la tosse, loro no. Davanti a più testimoni lei mi ha detto: ‘Si tolga il grembiule e se ne vada’. Allora mi sono slacciata il grembiule e l’ho invitata a uscire perché non mi andava di continuare a parlare davanti ad altre persone”.
In privato, l’infermiera ha risposto alla dirigente di non aver fatto nulla di male, perché stava cercando di tutelare la salute dei pazienti. “Fuori, la dirigente mi ha chiesto nome e cognome, aggiungendo che avrebbe avvertito il direttore generale di quanto successo. Ho risposto che poteva dirlo a chiunque, io non ho fatto male a nessuno. Poi, mi ha invitata a chiamare l’Ats e a chiedere un tampone”. Da allora è in malattia, anche se il tampone non l’è mai stato fatto.
“Le mie colleghe ancora lì mi raccontano che ci sono 5 stanze di pazienti in isolamento, con la febbre, e che un medico e una caposala sono in ospedale e stanno molto male. A differenza di quello che dice la dirigenza, le mascherine sono state fornite alle mie colleghe solo a metà marzo, non prima. Come avremmo potuto proteggere i pazienti senza dispositivi? E’ come se li avessimo uccisi, solo noi potevano portare il contagio da fuori”, conclude la dipendente del Pio Albergo.
Anche Nana, un’operatrice socio sanitaria di 45 anni di origine georgiana, ha confermato all’Agi che la situazione all’interno della Rsa era fuori controllo, così tanto che il 18 marzo il personale ha improvvisato uno sciopero, minacciando di non lavorare più senza mascherine. “Al mattino ci siamo guardati in faccia, eravamo tutti distrutti e impauriti. Chi aveva timore di avere contagiato i figli, chi i genitori anziani, chi aveva la febbre e stava male. Io avevo e ho paura per mia nipote che vive con me e la mia sorellastra. Lo sciopero è durato un paio d’ore. Abbiamo servito la colazione per non danneggiare i pazienti e poi non abbiamo fatto più nulla. Poi a un certo punto abbiamo ripreso a lavorare”.
Quel pomeriggio, secondo la sua ricostruzione, due operatrici hanno portato via le mascherine che stavano in un armadio con la chiave, “le hanno portate via dicendo che le avrebbero date a chi ne aveva davvero bisogno. Ci è stato spiegato che la regione Lombardia non prevedeva, nei nostri casi, l’obbligo di tenere le mascherine. Poi, dopo pochi giorni, ci sono state invece date”.
L’azienda comunica l’arrivo di 3mila mascherine chirurgiche e di 2mila ffP2 solo il 28 marzo. “Ora tutti le abbiamo, ma molti di noi sono a casa in malattia, alcuni per paura, ma tanti coi sintomi del virus. Anche dei colleghi che lavorano hanno i sintomi, non hanno gusto e olfatto per esempio. Io ho deciso di continuare a fare il mio mestiere per dovere, anche se la mia sorellastra mi dice di smettere e non so se mi farebbe stare in casa qualora dovessi ammalarmi. Non voglio lasciare soli i pazienti che stanno male, alcuni stanno per morire o stanno morendo, anche in questi giorni. Hanno i sintomi del virus ma non c’è il tampone e i medici continuano a dirci di stare tranquilli, che è tutto okay, sono solo dei casi sospetti. Finché ce la faccio, finché non mi ammalo, io starò qui con loro. Faccio turni massacranti, quasi sempre le notti, ma non mollo”, ha continuato Nana, che racconta di non avere paura di far uscire il suo nome “perché la salute è l’unica cosa che ho nella vita, non ho altro, e la voglio difendere”.
Sulle 100 morti sospette al Pio Albergo Trivulzio, il polo geriatrico più importante del Paese, è stata aperta un’inchiesta da parte della Procura di Milano dopo l’articolo di Repubblica in cui Gad Lerner riporta la testimonianza del geriatra Luigi Bergamaschini, sospeso proprio per non aver impedito l’uso delle mascherine da parte del personale, contravvenendo alle indicazioni ricevute. Problematiche simili sono state segnalate da parenti, congiunti o conoscenti anche in altra RSA, tanto che la procura ha aperto vari fascicoli sulle case di riposo, non solo il Trivulzio, ma anche la Don Gnocchi, la Casa famiglia ad Affori, la Sacra famiglia di Cesano Boscone, e la Casa di riposo del Corvetto.
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