S. è un medico di un grande ospedale pubblico milanese. Quando mi contatta, mi spiega che lo fa perché chi è in Lombardia, in prima linea tutti i giorni nella lotta contro il Coronavirus, non può combattere con qualcosa che è così fuori controllo. Perché se la Regione non cambia strategia al più presto, dovrà continuare a comprare respiratori. E moriranno ancora troppe persone. Ma, mi dice, “le chiedo, per ora, di non fare il mio nome, non voglio creare problemi al mio ospedale, che già fatica come tutti, ci mancano solo le questioni diplomatiche a intralciare la nostra operatività”.
Il nostro problema oggi è questo: in una pandemia i soggetti potenzialmente sensibili sono tutta la popolazione. È come se questo contenitore diventasse sempre più largo e noi ora continuiamo a mettere acqua dall’alto. L’acqua sono le terapie intensive, i posti letto, i respiratori. Solo che non ci stiamo del buco sul fondo, quel buco che è il contagio.
Esatto. Invece per cura e prevenzione ci deve essere lo stesso investimento.
Io non sono riuscita a trovarne uno della Regione diverso da quello per il virus N1H1 del 2009, ad ogni modo secondo noi tecnici il cuore del problema è l’assenza di monitoraggio. Concentrarsi sul fare tante terapie intensive, ha un senso parziale se non ti concentri sulle mappature del contagio e sul contenimento. A Wuhan hanno capito che isolare le famiglie tutte insieme voleva dire, talvolta, far morire famiglie intere, anche perché ormai lo sappiamo, non è vero che il Coronavirus colpisce solo gli anziani.
Mappatura come dicevo, tampone e isolamento dei positivi. La Regione deve requisire tutto quello che può requisire: i residence, le case sfitte, gli hotel. Le persone malate devono fare le quarantene lì, con qualcuno che gli porti da mangiare, li monitori.
Lì hanno un braccio di trasmissione corto, una dittatura molto forte, capisco sia più facile realizzare il tutto.
Magari. Qui se una persona ha i sintomi, anche seri, a casa nessuno le fa il tampone. Serve una centrale operativa che lavori alla mappatura. Ma qui in Lombardia ignorare la prevenzione è un tema ricorrente. Se tu passi 20 anni a concentrarti sull’acuzie e sguarnisci il territorio di tutte le politiche di prevenzione, a partire da quelle ambientali, questo diventa il tuo unico modo di gestire la crisi: occuparti degli effetti e non delle cause. Regione e governo devono andare in questa direzione: assumere personale che monitori i contagi. Vogliono lasciare la gente a casa e non in hotel? Che però sia monitorata anche con i tamponi e da centrali di emergenza sanitaria. E servono ossimetri a casa, da dare a chi è in quarantena.
Vanno fatti in maniera mirata, ai sanitari in testa e a chi garantisce i servizi, ai pazienti sintomatici, poi il resto.
A parte la questione di metodo, non abbiamo abbastanza laboratori, il tampone ha senso se hai una risposta in poche ore, adesso abbiamo anche risposte a 72 ore. Se ci fossero più laboratori, più mascherine, più tamponi, servirebbero meno respiratori.
C’è la politica, c’è l’economia. Dicono “State a casa” e pensano che basti. Hanno avuto paura di danneggiare l’economia fermando tutto? Perché, adesso non è danneggiata? Dovevano mettere in protezione sanitaria la popolazione, subito. Se non hai questo obiettivo, non puoi porti nessun altro obiettivo.
All’inizio c’è stata molta confusione, si è ammalato molto personale medico. Ora la nostra regola è che dopo il 37,5 si sta a casa. I tamponi vengono fatti, ma secondo me andrebbero fatti anche ai sintomatici lievi. Questo doveva fatto in modo tempestivo, abbiamo perso tempo prezioso. E bisogna regolare il flusso dei pazienti, dividere Covid e sospetti Covid dai sani, subito. Dare indicazioni uniche.
Nella regione Lombardia ogni azienda è un piccolo regno. E questo è un altro bel problema della nostra regione. Il privato decide quello che vuole fare e quello che non vuole fare e “siccome sono un privato decido io”. Spesso poi le strutture private sono diventate Covid dopo settimane dall’inizio della pandemia. E’ molto complesso in un sistema di sussidiarietà verticale come questo fare un’azione forte, congiunta e coerente. Il privato in un sistema sanitario come il nostro che si può dire universalistico non può giocare il ruolo che sta giocando come lo sta giocando. Deve stare dentro le regole. Ricordiamoci di cosa accadde nella clinica Santa Rita. In quelle realtà è complicato entrare dentro, sapere quello che viene fatto. Specie durante un’emergenza come questa.
Questa è una delle particolarità di questo virus, per fortuna non troppo frequente: la progressione rapida. La cascata citochinica polmonare può succedere in poche ore.
Quando la curva scenderà, bisognerà far passare due cicli di infezione che nel caso del Corona sono circa 90 giorni, poi 90 giorni di sorveglianza. Quando tutto scemerà, dovremo stare “a cuccia” per 5 mesi. Questo se facciamo le cose giuste. Non bisogna far rientrare il virus nel paese.
Non si sa. Non in maniera permanente, se si comporta come un virus influenzale. L’influenza la prendiamo tutti gli anni. Vedremo.
Toscana Emilia e Marche stanno facendo da cintura, ma non so se durerà. Spero per sempre, vista la situazione della sanità al sud. Noi che tutti i giorni ci confrontiamo e scambiamo informazioni poi, quando guardiamo i puntini rossi che appaiono nelle mappe in America Latina e Africa, proviamo un grande senso di disperazione perché chissà cosa succederà lì.
E’ difficile quando non si è tecnici comprendere alcune cose. La Siaarti ha fatto benissimo a mettere fuori quel documento. Ribadisce un problema che la nostra società non vuole affrontare da un punto di vista culturale. Faccio un passo indietro. Non vogliamo fare ragionamenti sui limiti di intervento della scienza, sulla terapia futile. La verità però è che non possiamo curare tutti. Quando tu intubi un ottantenne, anche non in tempo di Coronavirus, non hai molte possibilità che ne esca fuori. Però in Italia si intuba tutti. Facciamo la peg anche a novantacinquenni. C’è una questione etica, e lo capisco, che manda in panico, sempre. Anche in questi giorni complicati.
Per i medici è difficile affrontare questo da soli. Ci sono pazienti che anche se ricoverati in terapia intensiva hanno comunque possibilità quasi nulle di salvarsi, ma tu, medico, di solito hai i parenti che piangono davanti a te e lo fai. Questo in tempi di vacche grasse, con la terapia intensiva libera. In tempo di vacche magre non si può.
Certo, c’è l’incognita, c’è sempre quello che non conosci, che non sai. La risposta soggettiva del paziente. Tutti ci siamo trovati a dover fare delle scelte, anche prima di questo caos. Oggi di più. Ma non abbiamo scelta.
Se io metto un ottantacinquenne in elicottero non ha molte possibilità di sopravvivere. Uno più giovane sì, lo so che è dura da accettare. Però una cosa la voglio dire: non possiamo curare tutti, ma ci stiamo prendendo cura di tutti. La regione però deve aiutarci, e subito. Ha perso troppo tempo prezioso.
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