Il viaggio con gli infermieri volontari nelle zone rosse colpite dal Coronavirus: “Non chiamateci eroi”
Sabato 4 aprile 52 infermieri sono partiti da Roma con un aereo militare della Guardia di Finanza, destinazione Bologna. Sono i volontari che hanno risposto al bando della Protezione Civile e vanno a lavorare zone più colpite dal Coronavirus. TPI è partito con loro per raccontare chi sono gli uomini e le donne dietro questa missione.
A prima vista sembrano diversissimi quando li vedi arrivare, non capisco cosa li unisca. Faccio i tamponi con loro. Viaggio con loro. Parlo con loro per tutto il tempo, mi carico delle loro testimonianze, raccolgo le loro parole. Uno ti dice: “Ci ho pensato, si: ma non più di un secondo”. Un’altra racconta: “Sono stata in tanti territori di guerra, questo è solo l’ultimo”. Uno, da Roma, mi fa: “Credimi, serve più coraggio a vivere da cassaintegrato dove non c’è lavoro”. Lo pensa davvero. Uno mi confessa: “L’ho spiegato a mia moglie ma non ai miei genitori”. Un altro, parla di religione: “Sono qui perché credo in Dio, e questa è una missione”. Una ragazza umbra, infine, mi dice: “Io ho vissuto un terremoto, restituirò quello che mi è stato dato”. Vengono dal Centro, dal Sud, dalle città, dalla province. Sono tutti volontari e rischiano la pelle per andare a combattere il virus.
Ma hanno qualcosa che li muove e li illumina, tutti, in questo viaggio in cui c’è molta energia ma nessuno ride. E alla fine, solo quando torno a Roma su un aereo semivuoto, capisco. Sembrano diversissimi, se ascolti cosa li spinge. Ma capisci cosa li unisce quando li vedi arrivare, insieme. Paolo, Roberto, Anna, Francesca, Cristian e Gaetano sono tutti infermieri. E questa è la loro storia.
9mila medici e infermieri per aiutare
Li incontro per la prima volta venerdì 3 aprile fuori all’Hotel Universo di Roma, a due passi dalla stazione Termini. Uno viene da Cagliari, due dalla Sicilia, tre da Salerno: sono alcuni degli oltre 9mila medici e infermieri che hanno risposto al bando di governo e Protezione Civile per andare a prestare servizio nelle zone italiane più colpite dal Coronavirus. 50 infermieri sono già partiti, altri 52 partiranno domani, sabato 4 aprile, destinazione Bologna, assieme al Ministro per gli affari regionali Francesco Boccia, con il terzo volo militare organizzato per affiancare nuovo personale sanitario ai medici e infermieri che da settimane lavorano incessantemente con i pazienti Covid-19 negli ospedali del Nord.
Alcuni rimarranno in Emilia-Romagna, altri partiranno in pullman per Lombardia e Trentino Alto Adige, “non sappiamo esattamente dove siamo destinati, ce lo diranno all’arrivo”. Federico, Francesca, Gaetano e Silvia sono lì per farsi fare il tampone, in un improvvisato “ospedale” nei seminterrati dell’albergo che li ospiterà per la notte. Faccio il tampone anche io perché il giorno dopo li seguirò nel loro viaggio. I militari mi consegnano un modulo da compilare, mi misurano la temperatura e mi spediscono in una stanza dove trovo un addetto sanitario vestito di tutto punto con tuta, guanti, occhiali protettivi e mascherina. Il tampone faringeo non è fastidioso, quello nasale moltissimo.
Il risultato arriverà la mattina dopo. Loro sono fuori dall’hotel che aspettano. Cosa? Il tempo passare. Si fumano una sigaretta, chiacchierano, si scambiano storie e aneddoti, soprattutto legati alla situazione. Giulio, di Roma, scherza su come ha confessato alla moglie di aver risposto alla chiamata del governo, lo scorso 28 marzo. È un signore distinto, alto. Porta i capelli bianchi con la riga in mezzo e dei pantaloni blu con un golf dello stesso colore. Con orgoglio racconta quanto fosse fiero di lui suo figlio, infermiere anche lui. Mauro invece fa paracadutismo, porta una giacca da aviatore e grandi occhiali da sole. Mi mostra delle foto sul suo cellulare: “Ti fa sentire vivo come non mai”. Questa non è la prima volta che parte in missione: “A 30 anni sono andato a lavorare in Africa – mi dice – avevo i capelli più lunghi dei tuoi”. Oggi è pelato e domani andrà in Lombardia.
Gli infermieri volontari del Coronavirus
Ci rivediamo il giorno dopo all’aeroporto militare di Pratica di Mare. Io arrivo in taxi, loro con due pullman della Guardia di Finanza. Fa molto caldo. Gli chiedo com’è andata la notte: “l’adrenalina mi ha tenuto sveglio” dice Giovanni, che viene dal Molise. I risultati dei tamponi sono stati tutti negativi. Capisco che la necessità dei test non era data solo dagli ovvi motivi sanitari che tutti possiamo immaginare, ma anche dalla difficolta di mantenere la distanza sociale durante questo viaggio. Abbiamo tutti la mascherina certo, ma siamo più di 60 persone tra volontari, guardia di finanza, giornalisti e politici e non c’è spazio.
Scendiamo dai pullman e ci avviamo verso l’aereo militare ATR 72 della Guardia di Finanza che da li a poco ci dovrà portare a Bologna. Loro con i loro trolley e le loro paure, io con le mie domande. Vengono quasi tutti dal Centro-Sud, le aree dove il Coronavirus è arrivato solo marginalmente e la situazione è ancora sotto controllo. Ma hanno comunque scelto di partire, anche a rischio di ammalarsi. E non perché sono eroi ma perché questo è il loro lavoro e non se la sono sentita di lasciare soli i colleghi che da settimane fanno turni da 12 ore in corsia. Davanti all’aereo si scattano selfie e fotografie, da mandare alle famiglie e agli amici. Si tirano giù la mascherina e sorridono. Sono sorrisi agitati.
Il primo con cui parlo è Paolo che ha 46 anni e fa l’infermiere da 26. Viene da San Gavino Morreale, un paesino dell’entroterra tra Cagliari e Oristano. Porta occhiali da sole con lenti blu, che nascondono gli occhi e un abbigliamento molto tecnico: “Mi sono portato i vestiti da corsa, così occupano meno spazio”. Mi dice che “il viaggio per arrivare a Roma è stato infinito” e stasera andrà in Lombardia. “Oggi sono tranquillo ma dopo aver inviato la domanda come volontario ero agitatissimo: ho aspettato una risposta con ansia, la stessa che hai la sera prima dell’esame di maturità”. Ha lasciato a casa una moglie e due figli: Fabio, 18 anni e Giorgia che compirà 16 anni fra pochi giorni, “ma io sarò in servizio e lei ha capito che sono partito per fare il mio dovere”.
Infermieri in prima linea, tutti i giorni dell’anno
Non si vedranno per settimane: la durata della missione ad oggi è di 21 giorni ma nessuno esclude che venga prolungata di altre due settimane, anzi “quasi sicuramente servirà più tempo”. Quello che preoccupa Paolo, confessa abbassando lo sguardo, è la situazione che troverà lì: “Stiamo andando in zone dove c’è tanta sofferenza e troveremo colleghi molto provati, sia lavorativamente che emotivamente”. Quando gli chiedo cosa prova ad andare in prima linea dice: “Noi siamo sempre in prima linea, tutti i giorni dell’anno”. Anche Roberto è della sua stessa idea e sbotta: “Non chiamateci eroi per favore. L’eroe è chi oggi è in cassa integrazione e fa fatica a mettere del cibo in tavola, l’eroe è mia moglie che sta a casa con tre figli. Noi stiamo solo facendo il nostro lavoro”.
Neanche a Cristian, Federico e Gaetano piace essere chiamati eroi. Cristian è tra i più giovani: ha 34 anni e viene da Firenze. Ha risposto alla chiamata perché “sarebbe stato molto più difficile non rispondere”, mi dice allargando le braccia con un sorriso, come se fosse ovvio. Federico invece di anni ne ha 50, è arrivato da Messina col treno e la sua paura è quella di “non essere all’altezza” ma anche per lui scegliere di partire è “tutta questione di pancia”. Per Gaetano invece è stata la fede a spingerlo verso questa decisione. “I miei genitori non lo sanno che sono qui, l’ho detto solo a mia sorella – confessa. – Ho paura si, ma sono pronto ad affrontare questa situazione”.
La decisione con la famiglia
Molti hanno condiviso questa scelta con la famiglia, per altri invece è stato un grosso problema. Come per Angelo, un infermiere di 33 anni che vive in provincia di Salerno: ” Non ho più parlato con i miei genitori da quando gli ho detto che partivo. Sono molto preoccupati, li capisco. Ieri però ci siamo finalmente chiamati, gli ho detto che sto bene”. Anche la famiglia di Giovanni, giovane infermiere siciliano, è molto preoccupata: “All’inizio non riuscivano a capire che quello che faccio lo faccio per la gente che soffre, e la gente siamo noi. Se ogni volta che c’è un problema l’uno aiutasse l’altro forse il mondo sarebbe un posto migliore” mi dice appena prima di salire sull’aereo con gli occhi che luccicano, un po’ per il sole, un po’ per il vento e un po’ per l’emozione.
Angelo e Giovanni sono tra i più giovani qui. E si vede: Giovanni non sta fermo un secondo, con la sua giacchetta gialla. Sta partendo per Milano, dove ha vissuto dieci anni. Se n’è andato pochissimi mesi fa, per tornare nella sua terra, ma dice che per lui era impossibile non partire: “`Vado ad aiutare i miei fratelli che ho lasciato lì”. Gli chiedo cosa secondo lui accomuna tutte le persone lì: “È il senso comune che ci da la forza. Nessuno di noi ha alcun tipo di ambizione di natura sociale o economica, questo è solo il nostro dovere“.
Dalle guerre ai terremoti: serve un supporto psicologico?
Francesca invece viene da Roma, “al momento ero inoccupata, perché lavoro con i progetti di cooperazione internazionale che ad oggi sono fermi”. Lei le guerre le ha viste davvero: “Sono stata stata in Afghanistan e in Iraq con la Croce Rossa e con la Ong Aispo”. Ma non è preoccupata: “Non è la prima volta che vado in missione e ho lavorato anche in Italia, nei terremoti dell’Aquila e di Amatrice”. Anche Anna ha fatto il terremoto di Amatrice, ma non da volontaria, da terremotata. “Per questo ho deciso di partire – mi dice – Ora voglio dare indietro un po’ di quella solidarietà che ho ricevuto”.
Per lei come per tanti altri è stata una decisione istintiva: “Ci ho pensato meno di due secondi”. La preoccupa però non riuscire ad essere di sostegno ai colleghi, “spero che apprezzino l’intenzione”. Le chiedo se secondo lei sia necessario un supporto psicologico per le persone che stanno lavorando in questa emergenza e combattendo contro il Coronavirus. “Per esperienza – mi dice – il supporto serve dopo, quando ci si ritrova ad affrontare il disturbo post traumatico da stress. Ora c’è l’adrenalina e lì per lì non riesci neanche a focalizzare quali sono i tuoi problemi: lavori in maniera instancabile, non ti fermi mai a guardare l’orologio”.
La task force della Protezione Civile
Accanto a loro c’è il ministro Boccia che ha ringraziato tutti “di cuore per la disponibilità, che ha permesso di costruire questa task force insieme alla Protezione Civile. Un’operazione in grado di far saltare i meccanismi, i lacci e le burocrazie a cui siamo abituati e di capovolgere il sistema”. “Oggi andiamo avanti solo se ci teniamo per mano” dice Boccia prima di salire sull’aereo. Arrivati a Bologna ci accoglie il presidente Bonaccini. Da lì i 52 infermieri volontari partiranno con altri pullman per le rispettive missioni negli ospedali del Nord. “Siamo pronti – dice Marco, abruzzese – l’Italia ha chiamato e noi abbiamo risposto”. Un po’, però, gli trema la voce.
Il bando, mi spiega Boccia su un volo di ritorno semideserto, è stato fatto perché “oltre a ventilatori e mascherine ci siamo resi conto che servivano anche esseri umani”. Inizialmente si è provata a fare una ricognizione attraverso i normali canali sanitari ma su 20 regioni solo 7 hanno dato disponibilità di personale arrivando a un totale di 40 medici in tutto il Paese: un numero decisamente troppo basso per un’epidemia che ad oggi in Italia ha fatto più di 15 mila morti.
Non saranno eroi, ma guerrieri si
“La mattina ti svegli e pensi al tempo che non devi perdere perché dalle decisioni che prendi dipende la vita di tante persone. Poi, la sera, dopo 20 ore ti si incrociano gli occhi mentre hai in testa le immagini dei volontari che hai accompagnato. E ti chiedi se tutto quello che hai fatto l’hai fatto bene – mi confessa Boccia. – Ma questi ragazzi ogni volta ti danno una lezione di vita e ti spronano ad andare avanti”.
I posti vuoti degli infermieri rimasti a terra pesano mentre ripartiamo alla volta di Roma, così come pesa il silenzio mentre il sole tramonta sull’appennino bolognese. E per un attimo, guardando fuori dal finestrino penso con ironia che potrebbe essere un qualsiasi sabato pomeriggio, mentre torni a casa in volo da un bel viaggio, stanca ma felice. Ma a casa non ci torni, perché casa è lontana e un nodo ti si forma in gola mentre pensi ai 52 infermieri che fra poche ore iniziano il turno in terapia intensiva. Uomini e donne, che si prestano ad affrontare quella che senza dubbio rimarrà impressa nella nostra memoria come una delle sfide più difficili della storia. Non saranno certo eroi, ma guerrieri si.