Coronavirus, perché vorrei che la Fase 2 coincidesse con la mia Fase 1
“Niente, a sinistra la vena è piccola piccola….proviamo sul braccio destro”. “Cambia qualcosa dottore?”. “Che domanda sciocca, ovvio che no”. Sarà pure una domanda cretina, ma la faccio nel momento in cui mi sto sottoponendo al mitologico test sierologico di cui si è detto tutto e il contrario di tutto. Un test che dovrebbe registrare o meno la presenza di anticorpi, dirmi insomma se in questi due mesi e mezzo vissuti a raccontare l’emergenza per Agorà fra Veneto e Lombardia, il virus si sia affezionato alla mia presenza nei focolai a tal punto da farsi un giro nel mio organismo.
Pongo questo tipo di domanda idiota perché il dottore non sa che in questi mesi, ogni giorno, ho sentito tesi ed argomentazioni, anche animate, che demolivano la funzione dei test sierologici. “Non danno la patente di immunità”. “Non sono infallibili”. E come dichiarato dall’infettivologo Crisanti a TPI: “Non esistono prove che gli anticorpi proteggano dal virus” e che ci sono persone positive che rimangono infette per 50, 60 giorni pur non avendo sviluppato anticorpi. Ecco, io so tutto, Dottore, ma questa mattina, mentre fa fatica pure a trovare la vena sul braccio destro, ho deciso di affidarmi a lei e a questo test pur non avendo nessun sintomo e sentendomi particolarmente bene, al netto dell’acido lattico prodotto da una lezione di crossfit su Instagram che in realtà era stata concepita per Cristiano Ronaldo.
Dopo appena tre ore dal prelievo, sulla mia mail arriva il referto: “Test di screening per la ricerca qualitativa degli anticorpi: anticorpi IgM ASSENTI, anticorpi IgG ASSENTI“. Ok. Saranno pure test poco affidabili, ma al momento questo referto racconta di un virus che si è tenuto alla larga da me, nonostante le trasferte a Vo’ Euganeo, a Cremona, a Lodi, e le settimane a Bergamo e in tutti quei paesini della Val Seriana. Ripenso allora alle ore passate davanti agli ospedali, ai medici che uscivano a prendere una boccata d’aria e a raccontarci il “mostro”, reduci da reparti straboccanti di infetti. Ho scoperto solo ora che alcuni dei dottori che ho intervistato poi si sono ammalati, così come ho scoperto che alcuni parenti di persone morte per Covid che ho incontrato, dopo mille richieste, sono riuscite a fare il test che ha evidenziato la presenza di anticorpi.
Eppure nonostante questi colloqui, nonostante quattro hotel cambiati e una decina di treni regionali presi in quei luoghi, sembra che io non abbia avuto contatti col virus. Oggi allora, alla vigilia della tanto temuta Fase 2, voglio sperare che i comportamenti che ho tenuto in trasferta possano essere la chiave di volta per una convivenza non belligerante col virus.
In tutte le interviste che ho fatto, infatti, sono sempre stato ad una distanza superiore al metro e mezzo dal mio ospite, alla fine di un racconto straziante avrei voluto abbracciare la persona che avevo di fronte eppure non l’ho fatto. Ho rifiutato il caffè che Gabriella voleva offrirmi quando sono andato da lei per ascoltare la storia del suo Antonio, morto a soli 63 anni. E’ stato un percorso ad ostacoli, in cui per due mesi non ho toccato una persona. Né una stretta di mano, né una pacca sulla spalla. Denis, il ragazzo che mi portava il caffè in hotel, lasciava la tazzina sul tavolo e io mi sedevo furtivamente non appena lui si allontanava. Per non parlare della meticolosità di alcuni operatori delle troupe con cui giravo. Domenico, il mio fonico, spruzzava disinfettante su tutte le superfici del nostro mezzo, un van a 9 posti in cui eravamo sempre ben distanziati e con mascherina. Ogni auricolare e trasmettitore è stato sanificato con alcool e disinfettante, e non è stato mai passato direttamente ad un ospite ma lasciato su una superficie sterile per evitare qualsiasi contatto.
Ricorderò quegli ospiti, spesso politici o televisivi, abituati ad avere un assistente pronto a microfonarli o a consegnargli il ritorno audio rimanere basiti davanti a tanta solerzia. Ricorderò il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, fare a pugni con l’auricolare e noi fermi ad assistere alla scena senza poterlo aiutare. “Ma come Sindaco, dopo tante Isole dei Famosi, mi cade sull’auricolare?”. “Eh lo so, ricordo Kabir Bedi”. Ripenso a tutti questi atteggiamenti prudenti e scrupolosi, ai limiti della sociopatia e della maleducazione, e concludo che io la Fase 2 l’ho vissuta nella Fase 1. Per esigenze lavorative sono stato in giro mentre la maggior parte degli italiani, con enormi sacrifici, ha dovuto chiudersi in casa. Ho vissuto sulla mia pelle che con tanta attenzione, con il distanziamento, con i presidi e tanto buon senso si può dribblare il virus anche quando si è al centro del peggiore focolaio.
La paura più grande che ho è che da domani si perda quell’attenzione, quella meticolosità nell’affrontare il mondo esterno con cautela, una cautela che non deve essere terrore morboso bensì una valida alleata per riprenderci a poco a poco i pezzi della nostra quotidianità. Ecco, mi auguro che domani, la Fase 2 degli italiani coincida con la mia Fase 1. Certo, poi potrà succedere che davanti al bidone della spazzatura io possa grattarmi il naso sotto la mascherina e beccarmi il Covid. O il tifo. O la leptospirosi. O potrebbe piovere un meteorite dall’alto…ma questa è un’altra storia.
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