“Ragazzi, unità Covid19 in movimento. Sono di turno Rav e Giorgi”. È una mattina di marzo quando sulla chat di WhatsApp arriva l’attesa notifica. Dopo settimane di formazione, esercitazioni e organizzazione logistica, arriva la prima chiamata per un trasporto Coronavirus. L’ambulanza del comitato locale della Croce Rossa Italiana (Cri) di Castelplanio, in provincia di Ancona, è pronta da giorni e i due volontari prendono il coraggio a due mani e vanno a vestirsi. Sopra la consueta divisa rossa della Cri indossano una tuta 4B, due paia di guanti, una cuffia sui capelli, stivali, mascherina e occhiali protettivi. Sono completamente coperti e solo avvicinandosi e cercando i loro occhi è possibile riconoscerli.
Con un pennarello scrivono uno sul petto e sulla schiena dell’altra il nome, il comitato di appartenenza e l’ora in cui hanno indossato tutti i dispositivi di protezione individuale (Dpi). Gli istruttori li osservano in silenzio, monitorando ogni singolo passaggio, in un misto tra ansia e orgoglio. L’ambulanza parte per la destinazione indicata dalla centrale operativa e, fino al ritorno in sede dei due volontari, sulla chat arrivano messaggi di incoraggiamento degli altri colleghi.
Quello di Castelplanio è un comitato piccolo: circa 150 volontari. Offre servizi di trasporto sanitario di diverso tipo e fa servizio di 118. Si tratta di un gruppo con una grande eredità umana e morale, presieduto da Giuliana Chiorrini, la moglie del compianto Carlo Urbani, il medico che ha scoperto ed isolato il virus della Sars. In questa circostanza avere alle spalle quella esperienza, con tutti i suoi insegnamenti, è stato importante.
La squadra è eterogenea, ben bilanciata nel rapporto uomini e donne. Ci sono pensionati, lavoratori, ma anche studenti. Fuori qualcuno li vede come eroi, altri come possibili untori, ma la realtà è che i volontari tappano una carenza nella sanità pubblica.
Quando è scoppiata la pandemia, come una famiglia che si trova ad affrontare un problema, il gruppo si è riunito e sono state prese decisioni importanti, tra cui quella di tutelare i volontari più anziani, considerati più vulnerabili, esonerandoli temporaneamente dal servizio e sospendendo per alcune settimane il servizio 118. Dare la disponibilità per questi servizi ha significato anche fare i conti con le regole imposte dai rispettivi datori di lavoro. Il comitato ha risposto generosamente a tutte le necessità della popolazione, dedicandosi in particolare al trasporto dei pazienti immunodepressi.
Ai sette volontari, scelti in base all’età, alla loro esperienza, e alla loro formazione, è stata fornita una formazione specifica sul trasporto di pazienti Covid positivi. Il più maturo è Andrea, appena quarantenne, mentre la più giovane è Noemi, che di anni ne ha diciannove. Andrea Ravarelli, detto il Rav, e Giorgia Lauria, detta Giorgi, sono la coppia che è partita per prima.
Rav è in Cri dal 2010 ed è quello che ha più esperienza nel gruppo. Con il suo sorriso rassicurante e i modi di fare pacati trasmette positività in ogni circostanza. Nella vita di tutti i giorni è un operaio metalmeccanico e quando, con l’inizio della pandemia, l’azienda dove lavora ha temporaneamente chiuso, non si è lasciato prendere dallo sconforto, destinando tutto il tempo che aveva a disposizione alla Croce Rossa.
“Lo spirito di squadra che ci lega da anni e che ci ha visto affrontare insieme interventi durante il terremoto, nel soccorso di persone incidentate, ferite o colpite da malori, anche in questa circostanza ha fatto la differenza”, osserva. “La gente, da fuori, spesso ci dice che siamo matti, ci chiede chi ce lo faccia fare, ma quando sei un volontario questa domanda non te la poni, sei mosso da uno spirito di servizio che ti dà forza e coraggio”.
Giorgi, ventidue anni, laureanda in odontoiatria, è in Croce Rossa da ben otto anni. Sopra la mascherina i suoi occhioni azzurri raccontano una storia di fierezza, di gioia, di passione per il volontariato. “La telefonata per il mio primo servizio Covid è arrivata la mattina alle 9.00. Abbiamo fatto un lungo sospiro, ripassando mentalmente tutti i passaggi, dalla vestizione, alla svestizione”, racconta. “Il paziente era in isolamento, l’atmosfera in ospedale non era quella a cui eravamo abituati. Sono rimasta concentrata, nonostante l’emozione. In futuro, quando racconteremo questa esperienza, oltre alle difficoltà, ricorderemo anche gli aspetti belli, la stima e l’affetto accresciuti verso gli operatori sanitari, un rinnovato spirito di fratellanza”.
Francesco Duca, detto il Duca, è un gigante buono di vent’anni, che studia infermieristica e dal 2015 è in Cri, dove presta anche servizio di 118. È figlio d’arte, e con la mamma infermiera condivide un impegno che è al tempo stesso umano e professionale. Come tutti gli studenti italiani si è visto costretto a seguire le lezioni online, senza poter più frequentare. Per il suo primo servizio Covid-19, Francesco è stato impegnato nel trasporto di un paziente dimesso dall’ospedale di Jesi ad una struttura alberghiera di Senigallia, riconvertita in una sorta di centro per le quarantene.
“Ciò che mi ha spinto a dare la mia disponibilità per il trasporto di pazienti Covid è quello stesso spirito di servizio per cui sono entrato in Croce Rossa e ho scelto il mio percorso di studi”, dice. “Ho sempre sentito una predisposizione all’assistenza verso il prossimo. Con il distanziamento fisico abbiamo in qualche modo scoperto la bellezza e l’importanza di comunicare con lo sguardo”.
Due grandi occhi verdi-azzurri, sinceri e pazienti, Paolo Di Bella, detto DB -Pallì, è il deus ex machina del gruppo. È lui che organizza i turni, sostenendo il direttivo in tutte le scelte importanti. Paolo, in Cri dal 2015, racconta cosa significa, in queste circostanze, prendere delle decisioni: “La nostra politica è sempre stata quella di investire sulle relazioni, comportandoci davvero come una famiglia, come un gruppo di amici. Per questo non siamo mai andati alla cieca, la sicurezza e l’alta professionalità degli operatori sono sempre state la nostra priorità”.
Anche per lui il primo trasporto Covid resta scolpito nella memoria. “Abbiamo portato a casa una paziente che, dopo due mesi in ospedale per Coronavirus, finalmente tornava a casa, dove avrebbe comunque dovuto continuare a osservare un periodo di isolamento. A causa delle nuove regole, non c’era nessun parente ad attenderla in ospedale, ma c’eravamo noi. La parte più dura è stata imparare a gestire il distanziamento fisico. Generalmente siamo abituati a fare carezze, stringere mani, ma i protocolli Covid-19 hanno eliminato ogni contatto non strettamente necessario. Davanti alla casa della signora c’erano tutti i suoi parenti in attesa con cartelli di benvenuto, mentre i vicini di casa e i passanti si sono fermati per applaudire. Sentire quel calore e quell’abbraccio collettivo (virtuale) dedicato a una persona che aveva affrontato la morte e che dopo due mesi finalmente rivedeva il sole, è stato meraviglioso. Non nego che ci siamo commossi”.
Insieme a Paolo, in quel servizio, c’era Noemi Angelelli, detta Memy, che ha 19 anni ed è in Cri da due. Memy è una sintesi di dolcezza e coraggio e anche se sulla bocca ha la mascherina, riesce a parlare perfettamente con gli occhi. “Quando si è presentata l’occasione di rendermi utile in questa emergenza non mi sono tirata indietro, anche perché il mio percorso di studi in infermieristica va in questa direzione”, sottolinea. “Un infermiere non dice mai di no quando bisogna aiutare gli altri e questa esperienza mi ha permesso di mettermi alla prova. Ci sono stati attimi di esitazione, ma ci siamo confrontati tra volontari e insieme abbiamo superato le paure. Fare volontariato mi ha permesso di conoscere storie diverse di pazienti, e di vedere nel concreto medici e infermieri impegnati negli ospedali. Quando una persona ti sorride chiedendoti aiuto, superi tutte le esitazioni. Aiutare il prossimo è qualcosa di spettacolare, e sprono molto i miei amici a farlo. Io ho iniziato quasi per gioco, poi mi sono innamorata di questa realtà”.
Issam Chiminy, per tutti Issy, ha 22 anni, studia ingegneria elettronica e ogni minuto libero, anche prima dell’emergenza Covid, lo dedicava alla Cri, dove presta servizio da tre anni. Rigoroso negli studi e in servizio, mostra il suo spirito solare quando ride con gli occhi e muove i riccioli ribelli. “Durante il tirocinio del 118 ci sono stati due servizi con codici neri. Sono state esperienze forti, che ti forgiano e che ti fanno capire se sei davvero portato per la vita del soccorritore. In questa circostanza mi sarei sentito inutile a restare a casa a studiare e basta e così mi sono fatto avanti. Sulle spalle dei volontari ci sono tante responsabilità, si risponde a un’esigenza della società che è forte e il volontariato è la base della mia vita. Quando indossi la mega-tuta, i guanti, la mascherina, ti senti parte di una sorta di task force che è impegnata in una grande operazione per il bene di tutti. Mi sono sentito utile, sapevo che potevo fare la differenza”.
Brandon Coata, detto Bredde, ha 21 anni e in Croce Rossa ha ritrovato lo stimolo e la voglia di riprendere la sua vita in mano e portare a termine gli studi che aveva abbandonato. Bredde ha un mondo colorato dentro di sé e una gran voglia di vivere. “La pandemia ha ribaltato completamente la nostra vita”, riflette. “Quella vita che fino all’8 marzo 2020 ci era sembrata, come dire, normale e da lì a poco ci sarebbe mancata. Mi sono sentito come un bimbo che alle giostre perde il palloncino. Durante il periodo d’isolamento la Croce Rossa mi aiutato davvero molto. Sono stati giorni strani per tutti, in cui l’unico rumore artificiale era quello delle sirene dei mezzi di soccorso. Mi sono reso conto che quel periodo ci avrebbe segnato per sempre”.