Coronavirus, l’aria condizionata può diffondere il contagio?
Immaginiamo la stanza di un ospedale con un sistema di climatizzazione centralizzato, che cioè fa circolare la stessa aria tra diversi ambienti all’interno della struttura. Cosa succederebbe se l’impianto “captasse” anche l’aria interna, e se in quest’aria circolassero le famose micro-goccioline che un paziente affetto da Coronavirus sprigiona ad almeno un metro da sé tossendo o parlando? L’ipotesi che gli impianti di climatizzazione possano avere un ruolo nel propagarsi di un’epidemia non è recente: basti pensare a come il virus Sars 1 si è diffuso a Hong Kong nel 2003. Gli epidemiologi si accorsero che in una delle aree residenziali contagiate, l’Amoy Garden, il virus si era diffuso tramite modalità diverse dal contatto stretto persona-persona, e cioè tramite i sistemi comuni che collegavano le stanze del “Blocco E”, dove abitavano i 107 pazienti positivi, in appartamenti situati sulla stessa verticale. E nel famoso focolaio dell’Hotel Metropole, dove gli ospiti di un solo piano propagarono poi il virus nei rispettivi Paesi di provenienza, dal Canada a Singapore, il Sars 1 era circolato attraverso la condotta dell’aria.
Secondo alcuni studiosi, come il prof. Yasuhiro Kanatani della Tokay University di Tokyo, in Giappone, sarebbe accaduto lo stesso con il contagio del Coronavirus sulla Diamond Princess, la nave da Crociera rimasta per settimane davanti al Giappone con 3.500 passeggeri a bordo, dove oltre 700 persone hanno contratto il Covid-19. Tra le varie ipotesi c’è quella che questo si sia diffuso anche attraverso il sistema di aria condizionata che collega le cabine, poiché i turisti erano isolati nelle proprie stanze e avevano dunque già ridotto al minimo i contatti diretti, da persona a persona.
Leopoldo Baldini è un ingegnere tecnico di impiantistica di Bollate, in provincia di Milano, e ha lavorato per oltre 50 anni nelle progettazione di servizi per grandi stabilimenti industriali. Spiega a TPI che alcuni impianti di trattamento dell’aria, oltre a servirsi di quella che viene dall’esterno, prendono una percentuale significativa di aria interna agli ambienti e la riutilizzano, reintroducendola in altri locali insieme a quella “fresca”, in un ciclo continuo. E se in quelli climatizzati si trovano dei soggetti affetti da Covid-19, si può verificare il rischio che le goccioline infette siano captate dal sistema di ricircolo e entrino nel flusso dell’aria. Con la conseguenza che i virus possono essere reintrodotti in altre stanze o locali serviti dallo stesso impianto d’aria. L’aria condizionata in sé, dunque, non sarebbe un problema, ma lo diventa nel momento in cui i sistemi centralizzati lasciano attivi i meccanismi di ricircolo dell’aria. “Non voglio dire che tutta l’aria interna sia contaminata, ma se c’è il rischio che anche un solo schizzo, entrando nel sistema di condizionamento, faccia fuori anche sole 10 persone in un mese, perché nessuno se ne occupa?” dichiara l’ingegnere a TPI.
Fino a questo momento, l’Istituto Superiore Sanità (Iss) se ne è occupato, con una circolare del 23 marzo, che dispone lo spegnimento dei sistemi ricircolo dell’aria negli ambienti lavorativi. Ma sembra che questi in molte strutture siano ancora attivi, anche se “in buona fede”, perché non tutti conoscono i pericoli che si annidano tra i meccanismi di un impianto di climatizzazione.
Andrea Casa, presidente Emerito dell’Associazione Italiana Igienisti dei Sistemi Aeraulici (AIISA), ha dichiarato in un’intervista a Di Martedì che “l’esplosione di casi nelle Rsa potrebbe anche dipendere da questi impianti di ricircolo”. Baldini invece racconta a TPI di essersi accorto che in alcuni supermercati gli impianti di ricircolo sono ancora aperti, anche perché i responsabili, nonostante le circolari e le linee guida dell’Iss, non sanno di doverli chiudere. “Ho fatto il test in un supermercato, ho chiamato il direttore, e insieme abbiamo visto che i sistemi di ricircolo erano aperti. Se c’è uno che starnutisce e le particelle vengono prese dall’aerosol e portate nel circuito dell’aria condizionata è un pericolo soprattutto per chi ci lavora dentro”, denuncia il tecnico. E osserva che se negli ospedali questa buona pratica dovrebbe essere acquisita, nelle strutture non specializzate che in tempi di Coronavirus sono state riconvertite questa informazione, invece, potrebbe non essere ancora troppo chiara.
“Qui i medici rischiano la vita”, dice. Preoccupato che la precauzione non venga presa seriamente, Baldini ha scritto a chiunque, dalla presidenza della Regione Lombardia al blog del ministro della Salute, Roberto Speranza, ma non ha ancora ricevuto risposta. “Penso che i grandi edifici con sistemi centralizzati siano un rischio, prima per i dipendenti, poi per gli ospiti; da questo punto di vista i supermercati, dove tutti andiamo, sono un esempio di criticità, anche se protetti, o no, dalle mascherine”, scrive nella sua denuncia. “Non capisco come un intervento così facile non sia pubblicizzato, né sia diventato un obbligo, considerato che in primavera sarebbe consigliato anche come buona tecnica. Ora anche virologi e tecnici incominciano a dire che il riciclo è un rischio, cosa aspettano Protezione civile, Ministro e Regioni per agire?”, si chiede Baldini.
Intanto a Nanjing, in Cina, dove i casi di Coronavirus sono passati in poche settimane da 93 a zero, quella della chiusura dei climatizzatori nei grandi edifici è stata una delle misure adottate. Nel documentario del regista giapponese Takeuchi Ryo, che mostra appunto come in questa città della provincia cinese dello Jiangsu le misure si siano rivelate decisamente efficaci, l’ospite di un Hotel racconta come ha vissuto la quarantena a pochi giorni dalla fine. A differenza dell’Hotel Metropole di Hong Kong, nel suo il sistema di condizionamento centrale era stato spento: “hanno paura che tramite l’aria si possa diffondere il virus”.
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