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    Esclusivo TPI – La class action dei migranti contro il Viminale: “Gravi ritardi sulla regolarizzazione”

    Credit: Eric Gaillard - REUTERS

    A Roma 31 stranieri hanno intrapreso un’azione collettiva, citando in giudizio ministero dell’Interno e Prefettura

    Di Gaetano de Monte
    Pubblicato il 11 Lug. 2022 alle 16:04 Aggiornato il 11 Lug. 2022 alle 16:05

    Maryina è una cittadina ucraina che ha quasi 60 anni e vive a Roma da cinque anni. È arrivata in Italia con un visto turistico dalla Polonia e nel nostro Paese vi è rimasta da migrante irregolare, lavorando come badante con un contratto in nero. Nel 2019 la donna si è ammalata di un grave tumore e, da allora, ha cominciato a sostenere cure costose, seguendo un percorso di chemioterapia. Nel maggio del 2020 il Governo Conte II ha varato una sanatoria per regolarizzare i lavoratori stranieri impiegati in agricoltura e nel settore domestico. Un provvedimento che fu annunciato dalle lacrime di soddisfazione dell’allora ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, un passato di bracciante sfruttata e di ex sindacalista.

    Ora, secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, aggiornati al 19 maggio, a due anni esatti dalla misura sono state finalizzate il 66,8% circa delle pratiche, su oltre 200mila domande ricevute. L’ultimo monitoraggio pubblicato negli stessi giorni dalla Campagna Ero Straniero, nata cinque anni fa da diverse organizzazioni e Ong italiane, tra le quali Arci, Asgi, il Centro Astalli, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, i Radicali italiani, aveva stimato che più di 100mila stranieri si trovavano in un limbo, ancora in attesa dei documenti.

    Calende Greche

    “Ero Straniero” aveva denunciato anche le «tempistiche inaccettabili» relative alla procedura di emersione, sostenuta in questo anche da alcune sentenze favorevoli del Tribunale amministrativo della Lombardia che, tra il luglio il novembre del 2021, in tre distinte pronunce aveva affermato che «l’obbligo di conclusione dei procedimenti amministrativi entro un determinato termine costituisce diretta applicazione della Costituzione», e che, di conseguenza, avevano scritto così i giudici, «non può sussistere un procedimento amministrativo privo dell’indicazione del termine della sua conclusione», che il Tar lombardo aveva indicato in 30 giorni.

    Invece, sono passati esattamente due anni, era il 18 giugno del 2020, infatti, quando il datore di lavoro di Maryina aveva presentato alla prefettura di Roma istanza di emersione per lavoro domestico. Nel frattempo, non avendo ottenuto alcuna risposta dallo Sportello Unico immigrazione e perso interesse nel proseguimento della procedura, il suo “titolare” aveva rinunciato alla pratica e così l’aveva “licenziata”.

    Le condizioni di salute della donna oggi sono gravissime, presentando i sintomi di una malattia metastatica che necessita di trattamento chemioterapico cronico. E per risolvere la sua situazione, un varco nella burocrazia italiana l’ha trovato Giorgia Giordani, operatrice legale esperta di protezione internazionale che lavora in un centro di assistenza fiscale gestito dall’Associazione Domina a Mentana, in provincia di Roma.

    Procedura infernale

    «Dato lo stato di salute della donna, e il silenzio della prefettura di Roma, abbiamo proposto a Maryna di procedere con la richiesta di permesso per cure mediche». Racconta Giordani: «Ho accompagnato Maryna all’ufficio immigrazione della questura di Roma per formalizzare istanza di rilascio di permesso di soggiorno per cure mediche; e, in un primo momento, un impiegato ha rifiutato di prendere in carico la pratica, sostenendo che mancasse la documentazione attestante l’impossibilità di poter ricevere cure adeguate nel Paese di origine, l’Ucraina». E aggiunge: «Proprio oggi la donna, dopo che abbiamo inviato alla questura una diffida ad adempiere, è riuscita ad ottenere finalmente un permesso di soggiorno per cure mediche, ma questo risultato rappresenta senz’altro una ulteriore testimonianza del fallimento della procedura di regolarizzazione».

    Poi, Giordani rileva ancora: «In questi due anni ho incontrato centinaia di persone straniere che, a causa della procedura ancora sospesa in Italia, non sono riuscite a rientrare nel proprio Paese di origine per il funerale di un genitore, per firmare un’eredità, più in generale, di ritornare per un breve lasso di tempo per risolvere urgenti questioni familiari. C’è una tendenza a vedere queste persone solo come numeri a cui dare dei documenti, mentre ognuno è portatore di un vissuto, di una storia, di un legame con i Paesi di origine che andrebbe rispettato».

    Bandiera bianca

    C’è chi come Mikel, un cittadino albanese di 25 anni che abita in un comune della provincia di Roma, che alla regolarizzazione è stato costretto a rinunciare, poiché è tornato in patria il 6 marzo del 2021 per il funerale del padre. Ma, soprattutto, perché dato che il genitore è stato vittima di un incidente stradale causato da una persona sotto gli effetti dell’alcool, c’erano tutta una serie di pratiche burocratiche da sbrigare (denunce penali e assicurative) di cui la madre, che è molto malata, non poteva occuparsi.

    Quando Mikel è ritornato a Roma, però, dove il suo datore di lavoro aveva presentato il 18 giugno dell’anno precedente la domanda di regolarizzazione come collaboratore domestico, allo Sportello Unico della prefettura non gli hanno concesso il nulla osta, nonostante abbia presentato tutta una serie di documenti per giustificare l’assenza dal territorio italiano durante il procedimento.

    Oggi, l’uomo si trova costretto ad abbandonare l’Italia, perché secondo la Legge Bossi Fini che in questi giorni compie 20 anni e che non è mai stata riformata, è un clandestino, e come tale rischia di ricevere un decreto di espulsione.

    A rischiare molto di più è Nur, un cittadino del Bangladesh che ha 23 anni ed è domiciliato in un comune della provincia di Roma. L’uomo è arrivato in Italia alla fine di un lungo viaggio dopo aver perso i genitori. Qui, nella Capitale, Nur aveva presentato domanda di protezione internazionale. Una pratica, quella della richiesta d’asilo, che tuttavia procedeva a rilento.

    Così, quando è arrivata la sanatoria durante il governo giallo-rosso, ha deciso di procedere con l’istanza di emersione per lavoro domestico. Nel frattempo, Nur aveva concluso un accordo matrimoniale con una connazionale in Bangladesh per sposarsi nel suo Paese. Ma non poteva partire. Fino alla conclusione della procedura di emersione, infatti, la legge stabilisce che gli interessati non possono lasciare il territorio italiano, pena il rigetto dell’istanza.

    Ed è così che l’uomo riceve tuttora continue pressioni da parte della famiglia della promessa sposa in Bangladesh, cioè dei familiari della donna che non credono ai motivi burocratici e minacciano di denunciarlo alle autorità del Paese se non vi farà ritorno per concludere il matrimonio. E, dunque, temendo una denuncia penale e ritorsioni nel proprio Paese di origine, Nur ha deciso di rinunciare all’istanza di emersione ed ha chiesto alla questura di Roma il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale. Che ancora non ha ricevuto.

    Azione collettiva

    Nel frattempo, un gruppo di avvocati di Roma, sostenuto da alcune organizzazioni come Asgi, Cild, Progetto Diritti, Oxfam, Nonna Roma, Spazi Circolari, ha dato voce a queste situazioni di esclusione. Rappresentando in giudizio 31 migranti che hanno intrapreso una azione collettiva contro il ministero dell’Interno e la prefettura di Roma.

    Gennaro Santoro è uno di questi legali e rivela a TPI che la class action contro le disfunzioni della pubblica amministrazione potrebbe allargarsi già nei prossimi giorni, anche nei confronti della prefettura di Milano che, insieme a Roma, è la più “incriminata”. Infatti, secondo gli ultimi dati diffusi a maggio e risalenti alla fine di marzo dalla Campagna Ero Straniero: «A Milano, delle 25.900 domande ricevute, sono in via di rilascio 5.484 permessi di soggiorno (il 21%), mentre risultano 533 rigetti. A Roma, su 17.371 domande, 3.202 sono i permessi di soggiorno in via di rilascio (il 18%) e 1.427 i rigetti (l’8%)».

    L’avvocato spiega: «Abbiamo inviato alle amministrazioni una diffida ad adempiere per ripristinare il corretto svolgimento della funzione pubblica assegnata dalla normativa sulla regolarizzazione, invitando a concludere senza ritardo e comunque non oltre 90 giorni i procedimenti di emersione». E aggiunge: «A settembre, se la situazione non sarà sanata, procederemo all’iscrizione del ricorso vero e proprio. Perché non è ammissibile che a distanza di due anni dall’invio delle richieste, persiste l’inerzia della Prefettura di Roma che non ha ancora concluso la grande maggioranza dei procedimenti. Che le convocazioni programmate sono state annullate e mai più fissate. Che il portale dello Sportello Unico è stato fuori uso dal 22 aprile all’11 maggio di quest’anno». E ancora, denuncia Santoro, «dopo l’11 maggio, il portale non ha comunque funzionato per diversi giorni e le convocazioni continuano ad essere annullate per problemi tecnici all’interno della Prefettura. Ci sono convocazioni che sono state spostate almeno tre volte e le persone interessate sono ancora in attesa di essere richiamate. Proprio su Roma siamo ancora disponibili a raccogliere altre storie di questo tipo provenienti da singoli o da organizzazioni».

    «È l’ennesimo paradosso italiano». Conclude il legale: «L’articolo 103 del D.l. 34/2020 che ha introdotto la sanatoria era stato concepito anche per le imprese, a cui si concedeva di regolarizzare i propri dipendenti data la particolare situazione della pandemia. L’effetto, invece, è che dopo oltre 2 anni dalla richiesta di emersione, i cittadini stranieri in possesso della solo ricevuta della domanda non possono stipulare un altro contratto di lavoro, aprire un conto corrente, effettuare l’iscrizione anagrafica, lasciare il territorio italiano per visitare le proprie famiglie di origine. Ed alcuni datori sono stati persino multati per aver pagato i lavoratori senza un conto corrente. Serve una legge, più che l’ennesima sanatoria».

    Eppure, la proposta di legge c’è già ed è in attesa da cinque anni che il Parlamento la approvi. Si tratta della legge di iniziativa popolare sostenuta da 90mila firme nata proprio in seno alla Campagna Ero Straniero e che mira a superare le storture della Legge Bossi-Fini, legge che proprio in questi giorni compie venti anni di età, senza che nel frattempo nessun governo l’abbia mai voluta modificare.

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