Bruno Vespa, Lucia e la violenza sulle donne: se questo è servizio pubblico
Lo studio è quello di Porta a Porta. La mezzanotte è passata da un pezzo. Matteo Renzi ha appena terminato l’intervista in cui ha annunciato ufficialmente agli italiani l’addio dal Partito democratico e la nascita di Italia Viva. Al suo posto entra una donna sconosciuta al pubblico e sullo schermo compare il suo volto tumefatto, gonfio di lividi e rosso di sangue. Quella donna si chiama Lucia e la sua è una storia straziante, drammatica.
Una notte di nove anni fa, rientrando a casa dopo essere stata a ballare, Lucia è stata aggredita, pestata a sangue e massacrata da un uomo incappucciato e col coltello in mano. Quando ha sentito la sua voce, Lucia ha capito. Lei quell’uomo lo conosceva. Sfruttando un attimo di esitazione del suo aggressore, gli ha tolto il passamontagna e si è trovata di fronte Mario, il suo ex, l’uomo con cui per 18 mesi aveva avuto una relazione instabile e complicata e che Lucia aveva lasciato, come spiegherà in seguito, “per manifesta incompatibilità di carattere”. Una decisione che lui non aveva mai accettato.
Una storia come tante, sempre identica, che ancora una volta, nel silenzio di un’intera società, finisce nell’androne di una casa, di notte, col colpo di un’arma da fuoco nel petto o un coltello piantato nella carne. Solo che questa volta qualcosa va storto. La lama del coltello si stacca dal manico, Lucia si salva. È un miracolo, ma ogni tanto accade. Per il giudice si è trattato di tentato omicidio.
Otto anni e mezzo di carcere, poi ridotti per buona condotta, nonostante, nel frattempo, l’uomo in cella abbia commissionato l’omicidio della donna a un sicario bulgaro in cambio di 25mila euro, un trattore e un’auto. Il bulgaro denuncia tutto, ma l’ex viene processato e assolto due anni fa perché – potere crederci o no – “non si possono punire le intenzioni”. Il fatto esiste ed è acclarato, ma non costituisce reato. E così oggi l’uomo è di nuovo fuori e oggi abita a 4 chilometri dalla casa di Lucia, costretta a vivere sotto scorta. “È come se fossi affetta da un male incurabile” racconta la donna.
Eppure per Bruno Vespa, il giornalista numero uno del Servizio pubblico, il simbolo del giornalismo televisivo italiano, l’uomo che ha inventato il salotto televisivo come lo conosciamo e che ieri sera l’ha intervistata, Lucia “è fortunata, perché è sopravvissuta”. “Lui è innocente”. “A differenza di tante altre donne, è protetta. Non corre rischi”. E ancora: “18 mesi sono un bel flirtino però…”. Ogni volta che la donna prova a ricordare, puntualmente la voce del conduttore la scavalca, in un crescendo di commenti offensivi, superficiali e inconsapevolmente sessisti.
“Era così follemente innamorato di lei da non volerla dividere se non con la morte”. E via, sempre più giù, in un abisso di negazionismo che culmina nella frase della vergogna. “Se avesse voluto ucciderla, lo avrebbe fatto”. Il tutto condito da continui ghigni e risolini e impregnato da un certo intollerabile paternalismo con cui non si tratta una bambina di sei anni, figuriamoci una donna vittima di un tentato omicidio che vive nel terrore costante di essere ammazzata.
Lucia fatica persino a mettere insieme le parole. Non puoi fare a meno di metterti nei panni di quella donna che per dieci anni ha vissuto sofferenze e pressioni indicibili, intimidita, quasi inerme di fronte al grande giornalista, nel grande studio, sotto i riflettori che scaldano, accecano e confondono i pensieri. E a un certo punto sembra quasi scusarsi per il semplice fatto di avere denunciato, di non essere stata zitta, scusa per il fatto stesso di non essere stata ammazzata.
Bruno Vespa è stato e rimane un grande giornalista e avrebbe molto da insegnare ai giovani colleghi che si avvicinano al mio, al nostro mestiere, il più bello del mondo. Ma quell’intervista, quella risata sguaiata e fuori luogo, la faciloneria, lo sprezzo con cui ha trattato Lucia rappresentano uno dei punti più bassi della storia recente della televisione.
Se questo è il Servizio pubblico, se questo è giornalismo, se questa è un’intervista normale, allora dobbiamo avere una volta per tutte il coraggio di dire in faccia alle donne: non denunciate. Perché non vi crederemo. Perché non è violenza, non è odio, non sono (tentati) femminicidi. È solo “troppo amore”. Troppo amore. Già. In fondo, se ci pensate, quei venti minuti scarsi d’intervista incarnano, più e meglio di cento trattati, la concezione maschile (e non solo) dominante quando parliamo di violenza sulla donna: l’idea che, in fondo, non sappiamo tutto, che certe cose si fanno in due e che, sotto sotto, tutto sommato, se la sono andata a cercare.
Possiamo anche indignarci e denunciare Bruno Vespa all’ordine dei giornalisti o appellarci alla commissione di vigilanza Rai. E personalmente credo sia il minimo che dovremmo fare. Ma non basterà a fermare una piaga radicata nella società ad ogni livello, trasversale ad ogni ideologia politica, età e strato sociale. E che ci riguarda tutti. Non è Bruno Vespa il problema. Il problema siamo noi. E prima avremmo il coraggio di affrontarlo, prima potremmo tornare a definirci un paese e una società civili.
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