“Io avvocato di un malato di Coronavirus a Roma: Regione e Asl ci hanno abbandonati”
Luca vive a Roma ed è uno dei tanti malati di Coronavirus dimenticati a casa dal servizio sanitario. Ho ritenuto importante raccontare i fatti – pur utilizzando un nome di fantasia per proteggere la vera identità di Luca – per denunciare le carenze del sistema e cercare di dare voce a tutti i malati che non riescono ad avere assistenza in questa grave emergenza e che talvolta non ce la fanno. Luca ha potuto essere curato solo dietro il mio intervento, come avvocato, e grazie all’impegno del suo medico curante e di alcuni amici: due medici specialisti.
Il contagio
All’inizio del mese di marzo Luca si ammala, la febbre sale, arriva la tosse prima secca poi grassa. I sintomi sono chiari, gli stessi che ormai da settimane si leggono sugli articoli condivisi ovunque. Sono quelli del Coronavirus. Luca chiama il suo medico curante, il quale attiva immediatamente la procedura prevista avvisando l’ASL e richiedendo il tampone a domicilio. L’ASL risponde che i sintomi non sono sufficienti a giustificare un intervento domiciliare, manca infatti l’insufficienza respiratoria; in ogni caso assicurano che il paziente sarà monitorato telefonicamente.
L’aggravamento
Trascorrono i giorni, la febbre aumenta e i sintomi di Luca si aggravano. A distanza di qualche giorno arriva una telefonata di monitoraggio dove un operatore chiede al malato come si sente e se ha difficoltà a respirare, nient’altro. A questo punto Luca, durante una telefonata mi contatta e mi racconta, come amica e come avvocato, quello che sta succedendo. Suggerisco a Luca di segnalare la situazione al 112 e al 118 e contemporaneamente di rivolgersi a un amico pnemologo per chiedergli consigli su come gestire la malattia.
Lo pneumologo gli prescrive un antibiotico per avere una copertura da possibili infezioni ed escludere l’origine batterica della malattia. Gli fa anche comprare un saturimetro per monitorare costantemente l’ossigenazione del sangue e lo sente telefonicamente più volte al giorno tenendo i sintomi sotto stretto controllo.
La prima comunicazione scritta all’ASL e sviluppi della malattia
Nel frattempo scrivo una prima PEC all’ASL per cercare di sbloccare la situazione. Nessuna risposta, il responsabile è assente per motivi personali (così si appurerà in seguito). Nei giorni successivi Luca si aggrava ma l’ASL continua a non farsi viva. L’amico pneumologo fa comprare alla moglie di Luca un fonendoscopio e le insegna per telefono come usarlo facendo delle prove sulla schiena della figlia. Nonostante tutto, il respiro sembra pulito ma la tosse comincia a produrre tracce di sangue. A questo punto Luca chiede al proprio medico curante di visitarlo. Il medico arriva, con scarse protezioni (guanti, una mascherina chirurgica e un paio di occhiali da sole) e lo visita. Conferma che il respiro è pulito ma che questo non basta ad escludere una polmonite, servono esami radiologici.
Il pronto soccorso
Il giorno dopo Luca sta ancora male, a quel punto gli consiglio di imbottirsi di tachipirina, mettersi in macchina e andare in un ospedale dove lavora un altro comune amico medico, che lo aspetta oltre il termine del turno di lavoro. Quando Luca arriva in pronto soccorso, gli viene fatto il tampone e tutti gli esami ematici e radiologici. Il risultato è la presenza di una polmonite interstiziale bilaterale (la più insidiosa) e la positività al Coronavirus.
Trasferimento allo Spallanzani
In presenza di tale diagnosi, Luca viene immediatamente inviato presso l’ospedale Spallanzani, che a Roma rappresenta la struttura di riferimento per la ricerca e la cura delle malattie infettive. Il trasferimento tuttavia richiede un giorno di tempo perché in tutta Roma c’è una sola ambulanza attrezzata per malati infettivi, destinata al trasferimento dei pazienti da un ospedale all’altro. Alla fine Luca arriva allo Spallanzani, riceve le cure antivirali e inizia a migliorare. Dopo qualche giorno riceve una telefonata di monitoraggio da parte dell’ASL che ignorava il fatto che il paziente fosse da giorni ricoverato in ospedale.
La situazione della famiglia
Nel frattempo la moglie e i figli di Luca restano a casa, in isolamento, con vari (anche se lievi) sintomi tipici del virus. Anche per loro l’ASL non interviene così sono costretta a prendere in mano la situazione e dopo una serie di comunicazioni e minacce riesco ad ottenere il tampone a domicilio. I bambini sono negativi, la moglie presenta un esito indeterminato che evidenzia una parziale positività. Per questo, sempre su mia pressante sollecitazione, l’ASL fissa un nuovo test dopo 10 giorni.
Le dimissioni di Luca e il trasferimento presso il centro di quarantena
Nel frattempo il protagonista di questa vicenda ottiene un sensibile miglioramento e buona parte dei sintomi spariscono, resta solo una leggera tosse ma i tamponi sono ancora positivi. A questo punto viene dimesso dall’ospedale (che ha urgente bisogno di liberare posti per accogliere pazienti più gravi) e viene inviato presso una struttura privata per rimanere in isolamento e continuare a fare tamponi fino all’ottenimento di due esiti negativi, per essere considerato guarito e poter tornare a casa.
Purtroppo la permanenza in questo centro si rivela tutt’altro che facile: impossibile farsi una doccia perché l’acqua è fredda (e questo per un paziente appena uscito da una polmonite non è certo consigliato), il cibo è scadente e spesso servito freddo, c’è pochissima acqua da bere (1 litro circa al giorno, assolutamente insufficiente per un paziente che prende medicine e ha bisogno di bere molto). La moglie è costretta ad inviargli tramite corriere due confezioni da sei bottiglie d’acqua. Per i pazienti in quarantena l’unica possibilità di poter tornare alla vita normale è data dall’esito dei tamponi. Ebbene, dopo sei giorni di permanenza, a Luca non viene fatto alcun tampone, né gli è possibile sapere se e quando gliene sarà fatto uno.
Informata anche di questo, inizio a chiamare il centro di isolamento e a mandare e-mail ricevendo solo risposte evasive da personale non qualificato che dice di dover rappresentare il problema ai responsabili. Nessun risultato. A questo punto scrivo alla Regione, al Comune e all’ASL (che sono gli Enti deputati all’esecuzione dell’appalto con la società che gestisce il centro) minacciando querele per reati molto gravi. Alla fine vengo contattata da un dirigente dell’ASL che si mette a disposizione per risolvere il caso.
Dal colloquio emerge che il nome di Luca non è mai stato inserito tra i pazienti in attesa di tampone e che, da diverse settimane, ci sono pazienti che non vengono sottoposti al test. Non si capisce perché, tuttavia il fatto che queste strutture percepiscano cospicue somme di denaro per ogni giorno in cui un paziente resta loro ospite, potrebbe portare un malpensante a farsi strane idee e credere che l’internamento di Luca potrebbe protrarsi a tempo indeterminato. In ogni caso, subito dopo la telefonata, l’ASL autorizza il trasferimento di Luca presso un’altra struttura a sua scelta. Viene prontamente prelevato da un’ambulanza e trasferito altrove.
Al momento Luca sta completando serenamente il suo percorso di negativizzazione e presto potrà riabbracciare la sua famiglia. Tuttavia la storia non finisce qua, perché i fatti saranno trasmessi alla competente autorità giudiziaria per accertare se esistono responsabilità relative a questa serie di circostanze in cui si trovano i malati di Coronavirus e che, nel nostro caso, si sono risolte solo grazie all’aiuto di amici e all’intervento di un legale.
Purtroppo non tutti quelli che stanno soffrendo, hanno la possibilità di combattere contro questo sistema, è quindi per loro che si chiederà giustizia. È comunque doveroso un immenso ringraziamento a tutti i medici, infermieri e assistenti che hanno curato Luca e che ogni giorno, con grande rischio e sacrificio, dedicano la propria vita a chi sta male.
L’articolo di Michela Scafetta è stato pubblicato in origine sul sito del suo studio legale e pubblicato su TPI con il consenso dell’autrice.
Leggi anche: 1. Coronavirus, Matteo Renzi a TPI: “Non mi rimangio nulla, la pandemia rischia di diventare carestia” /2. Lombardia, con la sanità pubblica in tilt chi vuole operarsi (e ha i soldi) si rivolge ai privati: così si alimenta il mercato nero della salute
3. Gori: “Le bare di Bergamo sono solo la punta di un iceberg, i nostri morti sono quasi tre volte quelli ufficiali”/4. Coronavirus, che sciocchezza tenere aperte le profumerie e non le librerie: tornate indietro (di L. Telese)
Leggi l'articolo originale su TPI.it