Nuovo caos sul vaccino AstraZeneca: l’Italia intera è in attesa di un’indicazione sull’uso per gli under 40, le Regioni si muovono a macchia di leopardo e la Campania interrompe addirittura gli open day, le reazioni di trombosi riecheggiano sui giornali, nonostante siano casi rarissimi. Per fare chiarezza abbiamo intervistato Luca Pani, 60 anni, cagliaritano, ex direttore generale dell’Aifa (2011-2016), ordinario di farmacologia e farmacologia clinica all’Università di Modena e Reggio Emilia e all’università di Miami.
Professore, il Cts italiano oggi deciderà rispetto alle limitazioni di AstraZeneca per i giovani…
“La interrompo subito. È già qui che è tutto ribaltato. Ma per caso sono cambiate le leggi in Italia? Per cui adesso le decisioni regolatorie le prende il Cts? Ma chi è il Cts rispetto ad Aifa, che ha tutti i dati in mano? Non è per fare polemica, ma mi sembra assurdo…”
Quindi, secondo lei, la scelta spetta all’Aifa? O al ministero della Salute? Glielo chiedo perché qui è partito lo scarica barile…
“Solo e soltanto all’Aifa. Come sono spettate solo all’Aifa tutte le decisioni fino a questo momento. Ovviamente l’Aifa deve ascoltare tutti, e l’Ema vede e sa tutto. Ma poi sono i dati scientifici a parlare. E non c’è Oms che tenga, ministero che tenga o Cts che tenga. Poi si può parlare di quanto è vincolato il direttore generale dell’Aifa, ma questa è un’altra storia…”
Ma soprattutto: se ci sarà solo un’indicazione e non un diktat cosa bisogna dire agli under 40 e ancora di più alle giovani donne? Devono farlo o no?
“Quando si è davanti a un’autorizzazione emergenziale e non a una approvazione le regole sono diverse. Se vengono fuori dei dati sui potenziali rischi, non bisogna somministrarlo”.
Oggi l’ex direttore esecutivo dell’Ema Guido Rasi ha detto che oggi non vaccinerebbe sua figlia con AstraZeneca. Lei ha figlie? Oggi le farebbe vaccinare? E nei mesi scorsi le avrebbe fatte vaccinare?
“Sottoscrivo quello che dice Rasi. Mia figlia 23 anni ha già fatto Pfizer da tempo qui negli Stati Uniti. AstraZeneneca qui non è autorizzato”.
E se fosse in Italia?
“In Italia non glielo farei fare. In questo momento nei luoghi a bassa circolazione del virus e nelle persone non a rischio per il Covid e a rischio remotissimo per un evento avverso da AstraZeneca conviene fare un vaccino a mRNA, ma sono casi isolati e rari”.
E chi ha già fatto la prima dose deve stare in allarme o no?
“No, perché – ripeto – gli eventi avversi sono molto rari”.
I casi di trombosi sono in effetti 1 ogni 100mila. È il quadro ad essere cambiato. Come TPI aveva già spiegato nella rubrica “Parole chiare in medicina”, in Italia adesso il virus circola molto meno e secondo le tabelle dell’Ema, “con meno di 50 contagi settimanali ogni100mila abitanti il rapporto rischi/benefici con AstraZeneca non è più cosi favorevole sotto i 40 anni”. Insomma, a questo punto della storia della pandemia fare AstraZeneca non vale più la pena?
“Certo, questo è un punto un po’ tecnico, ma fondamentale. In questo momento la circolazione del virus è ridotta, ho meno persone in ospedale, quindi non vedo perché devo correre un rischio anche minimo se posso fare altri vaccini. Ma la domanda è un’altra: bastano gli altri vaccini oggi in Italia? Li state usando, li state iniettando?”.
L’ultima raccomandazione solo per gli over 60, nei fatti, non è stata rispettata. Non era meglio vietarlo in toto ai giovani?
“Queste sono delle strategie di health policy. Se il Paese aveva un sufficiente numero di dosi alternative, se aveva la certezza di coprire comunque la campagna vaccinale per gli over 60…Allora sì, poteva interrompere”.
Sembra esserci un effetto a cascata dello stop a Astrazeneca ai giovani anche sugli anziani. Tra gli over 60 infatti gli scettici sull’utilità di vaccinarsi sono ancora più di 3 milioni (non si sono fatti somministrare nemmeno la prima dose!). In quel caso che si fa? Meglio trovare più dosi di Pfizer per tutti?
“Ecco l’enorme problema nel comunicare i rischi sui giovani ancora prima di aver vaccinato tutti gli over 60. Stiamo parlando di una barba finta e chi potrebbe utilizzarlo in quanto categoria a rischio, sopra i 60 anni non lo sfrutta più al massimo!”
Con gli open day ai giovani le Regioni hanno sbagliato? È stata una corsa a chi vaccinava di più senza guardare ai potenziali rischi?
“Questo è stato il de profundis per il titolo V sulla salute. Ovviamente non succederà niente, ancora una volta. Non si riuscirà neanche questa volta a togliere alle Regioni il potere sulla salute. Le Regioni hanno vaccinato senza calcolare i rischi e si sono mosse da sole, come gli pareva”.
Ma secondo lei deve esserci un preciso e chiaro diktat, ovvero una decisione ferma e precisa dell’Ema?
“Attenzione, l’Ema è fatta dagli Stati membri. Quindi è sempre in collegamento con le agenzie statali. E sì, serve dare una linea”.
Fin dall’inizio AstraZeneca ha avuto problemi. L’Italia e l’Europa l’hanno gestita bene secondo lei, che conosce così bene questo mondo?
“La negoziazione nazionale sarebbe stata disastrosa rispetto a quella europea. Certo, bisognava mandarci delle persone esperte nella negoziazione dei farmaci. Perché dall’altra parte avevi degli avvocati da 50mila dollari a consulenza, spietati e che fanno i loro interessi. Però noi ce la giocavamo per milioni di abitanti, quindi non era male come potere negoziale”.
Quindi vuole dire che ci siamo fatti trovare impreparati?
“Sì, siamo andati lì impreparati. La differenza che si è notata chiara tra Stati Uniti e Europa è che i primi hanno inserito la strategia sui vaccini all’interno del word speed in una strategia di investimento globale, pubblico-privato tra l’altro. Quando loro hanno scoperto che la proteina spike poteva essere quella da colpire, per lo sviluppo del vaccino sono andati da chi faceva vaccini a Rna e sono andati da Moderna. Lo stesso hanno fatto Pfizer e Biontech, dove Biontech aveva anche i finanziamenti del governo tedesco. AstraZeneca aveva i finanziamenti di Oxford. Ma è mancato, a livello europeo e ancora manca, il concetto del valore del farmaco come valore di investimento, non come costo. E questo cambia le negoziazioni globali”.
Anche questa volta, come nel blocco di marzo, c’è dietro un decisionismo politico?
“Sì, è così”.
C’entra in qualche modo il fatto che AstraZeneca è il vaccino che costa di meno?
“Io spero che non sia stato questo il processo che ha determinato le scelte. Ma potrebbe aver contato. Costava di meno e quindi doveva essere più utile. Bisogna usare come parametro sempre la scienza, non l’economia”.
Sembra entrarci anche l’economia in questo caso. Per esempio, perché nel Regno Unito è andato tutto liscio con AstraZeneca?
“Questo dà la misura di quanti pochi siano i casi avversi. Globalmente non va male AstraZeneca e il Regno Unito è stato un esempio positivo, lì è andato tutto liscio. Le decisioni politiche, di strategia, di comunicazione – purtoppo – contano”.
Le faccio una di quelle domande impossibili: se fosse ancora lei il direttore dell’Aifa che decisione prenderebbe sullo stop ai giovani?
“Inanzitutto mi sarei premurato, perché la cosa si sa da mesi, di aver chiuso altri contratti per altri vaccini. Contratti massicci, intendo. Cosa che avrei potuto tranquillamente fare. Anche perché abbiamo un sistema sanitario ampiamente digitalizzato e quindi si poteva fare come Pfizer ha fatto con Israele”.
E perché non ci hanno pensato anche i suoi colleghi?
“Non lo so. Questo dipende dagli uomini e dalle donne che prendono decisioni”.
E poi?
“Poi avrei spinto al massimo per tutte le categorie a rischio per cui fare AstraZeneca vale la pena. Cosa che non è successa in Italia. Perché il panico è stato tanto e i furbetti di AstraZeneca, quelli che lo hanno rifiutato, sono stati troppi. Quindi io avrei prima saturato quelli sopra i 60 anni e poi preso una decisione sui giovani. Il compito dell’Aifa è capire anche, con visione, rischi e benefici per l’intera popolazione”.
Quindi, per capirci, avrebbe dato lo stop per i giovani o no?
“Sì, con la circolazione attuale del virus il gioco non vale la candela”.
Andando oltre Astrazeneca, è sempre più concreta la possibilità del bisogno di una terza dose di vaccino. L’Ema aveva fatto male i conti?
“Non è quello il tema. Il problema è che per esempio se servirà fare la terza dose e negli Stati Uniti si ritroveranno stretti, non daranno più i vaccini agli altri Paesi”.
Ci sono ancora parti del mondo dove la maggior parte della popolazione non ha fatto neanche la prima dose. In questo modo saremo in balia delle varianti?
“Il rischio è quello. Più circola, più varia. Quindi bisogna fare una strategia a livello mondiale su quanto sia conveniente fare la terza dose in alcuni posti, o almeno la prima in altri. Vi ricordo che la prima, dopo 10 giorni copre circa al 40-50 per cento. Che è già qualcosa. L’altra cosa da fare in maniera massiva è sequenziare, sequenziare, sequenziare le varianti. Dovresti sequenziare almeno il 15 per cento del totale dei tamponi giornalieri. Che però richiede un investimento e delle risorse umane non indifferenti. Questo servirà ad anticipare il futuro”.
E allora perché secondo lei è “strategicamente sbagliato” cancellare i brevetti?
“Io non sono preoccupato tanto per le aziende farmaceutiche. Quelle sono ricche sfondate e va bene così. Ma eliminare i brevetti toglie al ricercatore, sono esseri umani quelli che inventano i vaccini! Sono persone che hanno lavorato tutta la vita su un sogno, spesso un progetto di vita totale, per cui hanno sacrificato tutto. Ecco, possono scegliere liberamente se regalare il brevetto all’umanità, e spesso lo fanno. Ma lo devono fare loro! Il rischio è che viene meno la spinta individuale (e anche quella delle aziende). L’altro rischio, di cui si parla meno, è che le cose importanti non verranno nemmeno brevettate”.
Cioè?
“Cioè significa che resteranno un segreto industriale. Nessuno lo dirà. E sarà ancora peggio, perché da ogni brevetto deriva l’avanzamento della conoscenza umana. I problemi non sono i brevetti, ma le competenze per produrre i vaccini su scala industriale. E, ve lo dico, al momento in Italia nessuno potrebbe produrli. Figuriamoci in altri Paesi”.