“Perchè li portate tutti in Italia?”
“Non possiamo mantenerli tutti noi!”
“Vengono qua per rubare!”.
Queste sono solo tre delle tante frasi fatte che si leggono quotidianamente sui social o che si sento al bar. Ed erano state utilizzate anche nei commenti sulle pagine social di TPI lo scorso anno, la notte tre il 1 e il 2 di Agosto la Open Arms, nave umanitaria spagnola, aveva soccorso 87 persone a circa 65 miglia dalla Libia. Scrivevo un diario di bordo e raccontavo il soccorso.
Erano partiti da circa due giorni dal Al Khoms, ad est di Tripoli, a bordo di un gommone di 10 metri, un modello cinese economico completamente inadatto alla navigazione e con un motore da 40 cavalli che si è rotto dopo circa 24 ore.
A bordo di quell’imbarcazione c’erano 87 storie diverse, 87 sogni, 87 vite che ho conosciuto una ad una nei giorni successivi, mentre andavamo al porto assegnato dalla Spagna, Algeciras.
La notte del soccorso ricordo di non aver dormito, un po’ per l’adrenalina che ancora doveva scendere e un po’ perché per i reporter a bordo il lavoro “vero” inizia dopo il soccorso. Mentre scorrevo le foto scattate ho visto gli occhi di un ragazzo, erano impauriti e al tempo stesso mettevano paura.
Fu Riccardo Gatti a dirmi: “Potente questa foto Vale! Arriva diretta”. Gli occhi erano di Sheko, un ragazzo di 15 anni, proveniente dal Sudan e che aveva lasciato la sua adolescenza lungo la strada percorsa fino a quel momento.
Con Sheko siamo diventati amici attraverso gli sguardi, i sorrisi. Non parlava inglese e io non parlo arabo. Ogni tanto ci traducevano e mi facevo raccontare qualcosa.
Grazie ai social siamo rimasti in contatto e poche settimane fa ho deciso di andarlo a trovare a Parigi, dove vive felicemente e finalmente libero.
Non voglio aggiungere altro, è giusto che sia Sheko a raccontare la sua storia.