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    L’anestesista di Codogno: “Così abbiamo forzato i protocolli e capito che Mattia aveva il coronavirus”

    Ospedale di Codogno. Credit: ANSA/ANDREA FASANI

    "Ho pensato all’impossibile", parla Annalisa Malara, l'anestesista di Cremona che ha individuato la diagnosi per il 38enne di Codogno

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 6 Mar. 2020 alle 09:30 Aggiornato il 9 Mar. 2020 alle 14:10

    L’anestesista di Codogno: “Così abbiamo forzato i protocolli e capito che Mattia aveva il coronavirus”

    “Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’ignoto”. È stata Annalisa Malara, anestesista 38enne di Cremona, a pensare l’impossibile. È lei il medico dell’ospedale di Codogno che ha intuito che Mattia, suo coetaneo, potesse essere stato infettato dal coronavirus e ci ha permesso di individuare il focolaio e combattere l’epidemia di Covid-19 in Italia.

    “Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore”, ha detto la dottoressa Malara in un’intervista pubblicata oggi su Repubblica. “Mattia si è presentato con una polmonite leggera, ma resistente ad ogni terapia nota. Ho pensato che anch’io, per aiutarlo, dovevo cercare qualcosa di impossibile”.

    L’anestesista racconta che tutti i medici a Codogno sono stati sorpresi dalla “rapidità e gravità dell’attacco virale” che aveva colpito Mattia. Questo l’ha spinta a pensare all’impossibile e così ha chiesto alla moglie del 38enne se lui avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. “Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo”, spiega la dottoressa. Ma eseguire il tampone non è stato semplice.

    “Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria”, spiega Malara. “I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo”. E aggiunge: “Verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”.

    Nelle ore in cui attendevano l’esito del tampone, l’anestesista e i tre infermieri del reparto hanno indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Sono usciti ieri dalla quarantena, durante la quale – chiusi in ospedale – hanno continuato a curare i malati. Nessuno di loro è stato contagiato.

    “Spero di aver contribuito a dare tempo a colleghi e istituzioni, in Italia e in Europa”, conclude la dottoressa. “Abbiamo guadagnato giorni preziosi per il contrasto all’epidemia. Se anche i cittadini li usano bene, rispettando indicazioni e misure di prevenzione, molti potranno guarire e altri eviteranno il contagio”.

     

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