È uscita ieri una notizia che ha fatto il giro del mondo: la FDA (Food and Drug Administration), ovvero l’Agenzia del Farmaco americana, ha approvato un nuovo medicinale per la lotta alla malattia di Alzheimer. Si chiama Aducanumab (nome commerciale ADUHELM) ed è un anticorpo monoclonale che va ad agire contro una sostanza, chiamata β-amiloide, che tipicamente si accumula nel cervello dei pazienti con malattia di Alzheimer e che è considerata avere un ruolo determinante nello sviluppo di questa patologia.
Era dal 2003 che non veniva immesso in commercio un farmaco contro l’Alzheimer. Ed è la prima volta in assoluto che ad essere approvato non è un farmaco solo sintomatico, cioè in grado di ridurre i sintomi, ma un farmaco cosiddetto “disease modifying”, cioè in grado di modificare il decorso della malattia, andando ad agire contro la sostanza, o per meglio dire una delle sostanze che si ritiene causino la patologia. La notizia è senz’altro ottima, ma siccome non sempre è tutto oro quel che luccica andiamo a vedere da vicino di cosa si tratta.
Che cos’è la malattia di Alzheimer
Facciamo un passo indietro. Prima di addentrarci nella storia di questo farmaco, è bene qui ricordare brevemente che cosa sia la malattia di Alzheimer e perché abbiamo un disperato bisogno di farmaci efficaci contro questa patologia. Cominciamo col dire che la malattia di Alzheimer andrebbe più correttamente chiamata di Alzheimer-Perusini, visto il ruolo fondamentale che ha avuto nel suo inquadramento il grandissimo e ahimè poco noto scienziato italiano Gaetano Perusini, ma per semplicità la chiameremo qui solamente malattia di Alzheimer.
L’Alzheimer è una malattia neurologica molto diffusa nel mondo occidentale ed è caratterizzata dall’accumulo nel cervello di due sostanze: la proteina β-amiloide e la proteina tau. Secondo l’ipotesi ancora oggi più accreditata, l’accumulo anomalo di queste due proteine nel cervello è in grado di innescare un lentissimo ma inesorabile processo neurodegenerativo che uccide progressivamente i neuroni (cioè le cellule del cervello).
Questo processo per molto tempo (anche per decenni) non dà segno di sé per cui il paziente, anche se il suo cervello si sta ammalando, resta completamente asintomatico (ovvero fa una vita normale e non ha problemi cognitivi). Dopo un periodo di tempo variabile, il danno neurodegenerativo inizia a manifestarsi sul piano clinico con un deterioramento cognitivo che all’inizio è molto lieve ma che via via tende sempre più ad aggravarsi tanto da condurre poi progressivamente il paziente ad una condizione di demenza conclamata, ovvero alla completa dipendenza dagli altri e, successivamente, all’allettamento completo e alla morte.
È perciò possibile dividere la storia della malattia di Alzheimer in tre grandi fasi: 1)fase asintomatica, 2)fase di declino cognitivo lieve chiamata dagli autori anglosassoni MCI (che sta per mild cognitive impairment) e 3) fase di demenza. La differenza sostanziale tra MCI e demenza è che nella fase di MCI il paziente presenta sì dei disturbi cognitivi (tipicamente ma non sempre disturbi di memoria) ma resta sostanzialmente autonomo nelle attività della vita quotidiana, mentre nella fase di demenza (che oggi andrebbe più correttamente chiamata disturbo neurocognitivo maggiore), il paziente, a causa dei suoi problemi cognitivi, ha bisogno dell’aiuto di altre persone per vivere. A sua volta la fase di demenza è divisibile in varie sottofasi.
Semplificando, possiamo parlare di una demenza lieve in cui il soggetto ha bisogno di aiuto solo nelle attività più complesse della vita quotidiana, come la gestione dei farmaci, del denaro e degli appuntamenti, ma se la cava da solo in quelle più semplici, come lavarsi e mangiare, poi di una demenza moderata e infine di una demenza grave.
Quando il paziente presenta una demenza grave, in pratica non è capace di fare nulla da solo: non controlla gli sfinteri, ha difficoltà ad utilizzare forchetta e coltello, spesso non deglutisce bene il cibo. Nel giro di qualche anno, il paziente perde completamente la capacità di parlare e di interagire con l’ambiente fino a non riuscire più a far nulla, neanche a muoversi: allora si alletta e dopo un periodo variabile di tempo muore (generalmente per complicanze, tipicamente infettive, legate all’allettamento progressivo).
Quanto è diffuso l’Alzheimer
La malattia di Alzheimer è la più frequente malattia neurodegenerativa nel mondo occidentale e la più frequente causa di demenza nell’anziano, riguardando il 50-70 per cento dei casi di demenza. Rappresenta inoltre una delle condizioni più gravemente disabilitanti in età avanzata. Attualmente in Italia sono colpiti da questa malattia tra 600.000 e 1 milione di persone e nel mondo ne sono affetti circa 50 milioni di soggetti.
Si stima poi che, in virtù dell’aumento dell’aspettativa di vita, la sua diffusione globale triplicherà entro il 2050, quando ne risulteranno affette ben 150 milioni di persone. Il rischio di ammalarsi di questa malattia aumenta con l’età: si stima infatti che siano colpiti dall’Alzheimer tra il 3 e il 5 per cento delle persone nella fascia d’età 65-70 anni e oltre il 20 per cento delle persone nella fascia d’età 85-90 fino ad arrivare nella fascia over 90, a circa il 50 per cento di soggetti malati. La conseguenza di tutto ciò che ad oggi la malattia di Alzheimer rappresenta uno dei costi maggiori dal punto di vista sanitario e sociale che i Paesi occidentali si trovano a fronteggiare e uno dei principali problemi di salute pubblica, tanto che è stata definita dal British Medical Journal la malattia del secolo.
Le terapie disponibili finora
Fino ad oggi avevamo a disposizione solo quattro farmaci contro l’Alzheimer, che hanno nomi un po’ difficili: tre molto simili tra loro (galantamina, rivastigmina e donepezil) e uno, l’ultimo arrivato nel 2003, con un meccanismo d’azione un po’ diverso, chiamato memantina. Senza addentrarci nei dettagli molecolari, vi basti sapere che questi farmaci non curano la malattia, ma vanno ad attenuarne un po’ i sintomi. Hanno una efficacia variabile, in genere modesta, e il loro effetto positivo tende a perdersi completamente dopo qualche anno.
Quando spiego ai pazienti e soprattutto ai familiari come funzionano queste medicine, dico che vanno immaginate come un bastone per un soggetto che ha una malattia che ne limita progressivamente la capacità di camminare. Fintanto che le gambe funzionano un po’, il bastone dà una mano, ma quando le gambe (leggasi il cervello) smettono di funzionare del tutto il bastone non serve più a niente.
Di cosa abbiamo bisogno quindi? Non di un bastone soltanto, ma di un farmaco che arresta o rallenta la patologia che fa ammalare il cervello. Questo nuovo farmaco contro l’Alzheimer che è stato approvato in linea di principio dovrebbe far questo: agire direttamente sulla malattia e non solo sui sintomi. E la differenza è evidentemente enorme. Ma andiamo a vedere nel dettaglio di cosa si tratta e quali sono i dati che abbiamo a disposizione sulla sua efficacia.
Il nuovo arrivato sul mercato: Aducanumab
Il farmaco appena approvato per il mercato americano, chiamato Aducanumab, è stato messo a punto dall’azienda farmaceutica Biogen. Come tutti i farmaci che vengono immessi in commercio (compresi i vaccini contro il COVID che tutti conosciamo), prima dell’approvazione ha attraversato varie fasi di sperimentazione. Dopo fasi preliminari in cui viene valutata soprattutto la sicurezza del medicinale, l’ultima fase di sperimentazione è la cosiddetta fase III, in cui viene arruolato un numero abbastanza di grande di pazienti da permettere agli scienziati di valutare con sufficiente accuratezza l’efficacia del farmaco. I pazienti arruolati vengono divisi a caso in due gruppi: ad un gruppo viene dato il farmaco e ad un gruppo il placebo (o, se disponibile, un farmaco già in commercio). Per evitare condizionamenti, né il paziente né il medico sperimentatore sanno se il singolo soggetto arruolato è stato assegnato al gruppo farmaco o al gruppo placebo (tecnicamente si dice che la sperimentazione è condotta in doppio cieco). Alla fine della sperimentazione si va a vedere se i pazienti che hanno preso il farmaco sono andati meglio di quelli che hanno preso il placebo e soprattutto se le eventuali differenze osservate sono dovute al caso oppure no (ci sono opportuni metodi statistici per farlo, che qui però non discuteremo).
Nel caso di Aducanumab, in fase III, per valutarne l’efficacia, sono stati condotti due studi (tecnicamente chiamati trial randomizzati controllati in doppio cieco) di eguali dimensioni, che sono stati chiamati EMERGE ed ENGAGE. In tutti e due questi trial, sono stati arruolati 1350 persone con malattia di Alzheimer in fase di MCI o in fase di demenza lieve (sono stati quindi esclusi i pazienti con malattia in fase molto avanzata). L’obiettivo primario dello studio era valutare se il farmaco, utilizzato nella sperimentazioni a vari dosaggi, riducesse, rispetto al placebo, la velocità del declino cognitivo, misurato con opportuni strumenti neuropsicologici. Tra gli obiettivi secondari dello studio c’erano: i)rivalutare ulteriormente su numeri più grandi la sicurezza del farmaco (ovvero quantificare i rischi di effetti collaterali rispetto al placebo) già misurata nelle fasi precedenti di sperimentazione, e ii) andare a vedere quanto il farmaco fosse in grado di “ripulire” il cervello dei pazienti dalla sostanza β- amiloide.
Prima di entrare nello studio, tutti i pazienti venivano sottoposti ad una valutazione neuropsicologica. Una volta esclusi quelli con malattia più grave, i restanti venivano sottoposti ad un esame molto complesso, chiamato PET-amiloide. Semplificando, l’esame PET-amiloide è un esame medico-nucleare, in cui un radiofarmaco viene iniettato nel sangue del paziente, arriva nel cervello e, in presenza di β- amiloide, si va a legare ad essa. Grazie ad apparecchiature molto sofisticate, in pratica, riusciamo a leggere il segnale dato dal legame del farmaco con la sostanza per cui, se il segnale c’è, vuol dire che c’è β- amiloide nel cervello, se non c’è vuol dire che non c’è β- amiloide. E siccome se non c’è β- amiloide, non c’è, per definizione, l’Alzheimer, in caso di PET amiloide negativa, possiamo ragionevolmente escludere (salvo casi rari di falsi negativi) che la causa del declino cognitivo presentato dal soggetto in questione sia la malattia di Alzheimer.
Tornando al trial, tutti i soggetti con MCI o demenza lieve e PET amiloide positiva e che non presentavano i criteri di esclusione previsti dal protocollo, potevano essere arruolati. Una volta arruolati, venivano casualmente assegnati o al gruppo farmaco o al gruppo placebo. Quelli che prendevano il farmaco potevano a loro volta risultare assegnati ad uno di tre bracci sperimentali in cui erano testati vari dosaggi del farmaco, per cui un gruppo assumeva un dosaggio minore, uno un dosaggio intermedio ed un altro un dosaggio maggiore. Nel corso della sperimentazione, tutti i pazienti venivano testati sul piano neuropsicologico e si sottoponevano ad esame PET-amiloide di controllo per vedere se il farmaco riuscisse oppure no ad eliminare la sostanza β- amiloide dal cervello.
Quando lo studio era ancora in corso, a marzo 2019, sulla base di un’analisi fatta in corso d’opera sui dati a disposizione (tecnicamente chiamata interim analysis) e che aveva dato esito negativo (leggasi il farmaco non funziona!), i due trial (EMERGE ed ENGAGE) furono precocemente interrotti. Ricordo perfettamente quel momento: mi trovavo con i miei colleghi medici e neuropsicologi che lavoravano con me. Quando arrivò quella mail da Biogen, scese il silenzio e tutti dentro di noi ci chiedemmo: e ora chi glielo dice ai pazienti e alle famiglie che avevano riposto tanto fiducia in questa medicina? Fu terribile e credo che una sensazione simile fu provata allora da tutti i medici e gli scienziati del mondo che stavano conducendo la sperimentazione. Richiamammo uno ad uno i familiari e i pazienti e spiegammo loro che purtroppo la sperimentazione era stata interrotta.
Passa qualche mese e arriviamo ad ottobre 2019 e lì c’è un colpo di scena. Biogen nel frattempo aveva rifatto i calcoli perché si era accorta che i precedenti non erano precisi e aveva fatto una scoperta interessante. Nel trial EMERGE, al dosaggio maggiore, il farmaco aveva raggiunto l’obiettivo primario, ovvero era risultato in grado di rallentare il declino cognitivo di circa il 30 per cento rispetto al placebo. Viceversa il trial ENGAGE aveva dato esito negativo, ovvero il farmaco non aveva raggiunto l’obiettivo. In tutti e due i trial, il farmaco era poi risultato in grado di ridurre l’accumulo di β-amiloide nel cervello in misura dose-dipendente. Quanto agli effetti collaterali, questi erano risultati globalmente lievi e di norma reversibili.
In relazione all’efficacia clinica, che era l’obiettivo primario, questa rianalisi dei dati ha prodotto quindi risultati controversi, poiché un trial era risultato positivo e uno negativo. Gli scienziati allora fecero un’ulteriore analisi, tecnicamente chiamata post- hoc analysis, per andare a capire il motivo di queste differenze. Questo è quello che è emerso: per motivi a tutt’oggi non chiari ma verosimilmente legati all’estrema variabilità clinica dell’Alzheimer, nel trial EMERGE, quello con risultati positivi, i pazienti trattati con placebo avevano avuto un declino cognitivo significativamente più spiccato dei pazienti trattati con placebo nel trial ENGAGE, quello con esito negativo, e questo potrebbe già di per sé spiegare le differenze. Inoltre, facendo una sotto analisi del trial ENGAGE relativa ai pazienti trattati con dosaggio più alto e per un tempo maggiore, pareva intravedersi un significativo vantaggio del farmaco anche in questo studio che pure era risultato globalmente negativo. Sulla base di questi dati, l’azienda BIOGEN ha chiesto l’autorizzazione a FDA per l’immissione in commercio del farmaco. Nonostante due pareri negativi da parte di una commissione interna ad FDA e specializzata sui farmaci attivi sul sistema nervoso centrale, l’FDA nel suo complesso ieri ha dato un parere favorevole, per cui il farmaco negli USA sarà disponibile in commercio. Ha però richiesto all’azienda Biogen di effettuare uno studio di fase IV (cosiddetto post- marketing) per rivalutare ulteriormente l’efficacia del medicinale. Sulla base dei risultati di questo nuovo studio, FDA rivaluterà poi l’autorizzazione e deciderà se revocarla o confermarla.
La decisione dell’Fda è giusta o sbagliata?
La decisione capite bene non è semplice e divide gli esperti. Da una parte abbiamo uno studio con esito positivo (il farmaco funziona!) e dall’altra uno studio di eguali dimensioni negativo (il farmaco non funziona!). Come hanno scritto i colleghi Knopman, Jones e Grecius in un bell’editoriale su Alzheimer’s and Dementia, la probabilità che sia giusto il risultato positivo o che sia giusto quello negativo è esattamente la stessa. Perché fidarci di quello positivo più che di quello negativo? E’ vero che da una sottoanalisi post-hoc, anche nello studio negativo pareva intravedersi un vantaggio del farmaco ad un dosaggio maggiore purché preso per un tempo congruo, ma nella scienza le sottoanalisi post- hoc servono a dare spunti per nuovi studi ma di per sé non dimostrano niente.
E non è raro che i risultati suggeriti dalle sotto analisi siano poi stati smentiti dai trial (è successo esattamente questo per esempio proprio ad un altro farmaco sperimentale contro l’Alzheimer chiamato Solanezumab). A rigore quindi la forza delle evidenza a favore dell’efficacia del farmaco non è granché. D’altra parte, a favore della decisione di FDA, è giusto notare che il farmaco è sicuramente in grado di eliminare la β- amiloide nel cervello, che è considerata una delle cause dell’Alzheimer (anche se pure su questo in seno alla comunità scientifica non c’è unanimità di vedute). E poi il farmaco non pare avere grossi effetti collaterali. FDA perciò ha ragionato così: è possibile, forse persino probabile, che il farmaco funzioni (anche se non fa miracoli), non è granché pericoloso, non abbiamo grosse risorse: meglio questo che niente. Vale la pena approvare, poi facciamo sempre in tempo a tornare indietro.
Speranze vs realtà
L’approvazione di un nuovo farmaco contro l’Alzheimer è di per sé una buona notizia. Ma non facciamoci prendere troppo dall’entusiasmo: nella migliore delle ipotesi, la medicina rallenta il declino cognitivo ma non lo blocca né tanto meno lo guarisce; può essere dato solo ai pazienti con malattia non troppo grave (per quelli con malattia grave non c’è ancora niente da fare purtroppo sul piano farmacologico).
Inoltre, ad oggi è disponibile solo sul mercato americano. L’EMA in Europa ha richiesto prima di decidere l’approvazione un nuovo studio di fase IIIb, che è attualmente in corso per rivalutare sicurezza ed efficacia del farmaco testando solo il dosaggio più alto. Quindi ad oggi nel nostro Paese i farmaci che possono essere somministrati per l’Alzheimer sono esattamente quelli che avevamo a disposizione ieri o diciotto anni fa.
*** Questo articolo fa parte della rubrica di TPI “Parole chiare in medicina” tenuta dal medico neurologo dell’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) Leonardo Biscetti. Apparentemente sul Covid gli scienziati dicono tutto e il contrario di tutto. Vi faremo capire che la scienza non è un’opinione. Vi spiegheremo i dati e gli studi più recenti sulla pandemia. E non solo.
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