“Il mio ex compagno è stato condannato per violenze, ma ora vogliono togliermi mio figlio”, a TPI la denuncia di Sabrina
“Il padre è stato riconosciuto come pericoloso e violento nei riguardi miei e di nostro figlio, con disturbo manipolativo a carattere istrionico/narcisista, ma nonostante questo il tribunale civile continua a proteggere lui anziché me e soprattutto il bambino”. Sabrina* ha 35 anni e dopo anni di soprusi e violenze, fisiche e psicologiche, rischia di perdere la custodia del figlio di 4 anni perché accusata di “alienazione genitoriale” nonostante il padre del bambino sia stato condannato con una sentenza di primo grado per maltrattamenti contro di lei.
L’alienazione genitoriale, elaborata dallo psichiatra americano Richard A. Gardner come (PAS, Parental Alienation Syndrome) è descritta come una “sindrome” che colpisce i bambini coinvolti in separazioni conflittuali. Questa controversa categoria, tuttavia, è stata sconfessata dalla comunità scientifica internazionale e da diverse pronunce di Cassazione.
“Ho conosciuto il mio ex compagno nel 2012, tramite alcuni amici comuni”, racconta Sabrina a TPI. “All’inizio tutto sembrava andare bene e dopo poco tempo è venuto a vivere a casa mia. Nel 2014 sono rimasta incinta”. Durante i mesi della gravidanza, tuttavia, i comportamenti dell’uomo sono cambiati. “Era sempre più assente, freddo e distaccato”, dice Sabrina. “Non sono una persona gelosa ma arrivo a sospettare dei tradimenti. Una notte, entrando nella sua casella email, scopro che era iscritto in diverse chat di incontri e mi tradiva ripetutamente e abitualmente con diverse persone”.
Messo dinanzi alla scoperta, l’uomo ha promesso di smetterla con i tradimenti e di cambiare. Ma dopo la nascita del bambino sono iniziate le aggressioni e le violenze fisiche nei confronti di Sabrina, perpetrate anche alla presenza del figlio minorenne e talvolta anche dinanzi ai parenti più stretti della coppia. “Un giorno abbiamo avuto l’ennesima lite furiosa, il mio ex compagno mi ha minacciata con una spranga di ferro davanti al bambino e mi ha buttata fuori di casa”, racconta la donna. “Mi ha detto che se fossi tornata mi avrebbe uccisa”.
È a quel punto che lei decide di denunciare, temendo per la propria vita e per quella del figlio di poco più di un anno. Sabrina porta agli inquirenti tutte le prove, inclusi messaggi di minaccia e un filmato di sicurezza di un centro commerciale, dove l’uomo l’aveva aggredita. La sentenza di condanna di primo grado arriva nel 2017, ma l’incubo per Sabrina è ancora lontano dalla fine. Dopo la sentenza, infatti, continuano le minacce. “Un giorno mi ha inviato una mail, dicendo di desiderare un chiarimento tra noi”, racconta Sabrina, “Ma alla fine del messaggio c’era un pupazzo di Babbo Natale a terra morto, l’ennesima minaccia nei miei confronti”.
Il bambino intanto inizia a vedere il padre con degli incontri protetti insieme agli assistenti sociali. Da uno di questi incontri, un giorno, torna con lo zainetto pieno di pericolosi petardi, vietati ai minori di 18 anni, che gli erano stati consegnati dal padre, senza che alla madre fosse comunicato nulla. L’uomo, che ammette il gesto, parla di una “leggerezza”, ma lei sa che si tratta di una nuova intimidazione. Sabrina sa che qualcosa in quegli incontri non va, tanto che arriva a denunciare l’assistente sociale, accusandola di relazioni non corrispondenti alla realtà dei fatti.
Nel 2019 Sabrina e il bambino vengono inseriti in una struttura protetta. Nel frattempo prosegue il calvario per la tutela legale del bambino, durante il quale la donna viene accusata di avere un atteggiamento “ostativo alla genitorialità del padre”. Nel processo civile, infatti, nonostante vengano riconosciute le capacità genitoriali di Sabrina la Ctu (consulenza tecnica d’ufficio, ndr) conclude sottolineando l’atteggiamento ostile, diffidente e sfiduciato della donna, che sarebbe da considerare ostativo alla genitorialità del padre e dunque tale da giustificare e richiedere la sospensione della sua responsabilità genitoriale. Questo nonostante i contatti del padre con il bambino, anche telefonici, siano continuati con regolarità. “Rischiare di perdere mio figlio perché ho denunciato la violenza è un ricatto inaccettabile”, dice a TPI Sabrina, che rivendica di averlo solo difeso “dalla violenza paterna che ancora oggi non si placa, ma anzi si è fatta più forte a causa dell’atteggiamento permissivo, se non addirittura di favore, assunto dalle istituzioni”.
*Il nome è di fantasia per garantire l’anonimato alla persona intervistata
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