Antonio Cornacchia è un ex generale dell’Arma dei Carabinieri. Fu lui che per primo ritrovò il corpo di Aldo Moro il 9 maggio 1978. «Erano circa le 13.20, mi trovavo a piazza Ippolito Nievo, lungo viale Trastevere», ricorda Cornacchia, che all’epoca era comandante del Reparto operativo di Roma dei Carabinieri e in seguito ha lavorato per alcuni anni al Sismi. «Ricevetti una telefonata del colonnello Gerardo Di Donno, che dalla centrale operativa dei Carabinieri mi diceva di portarmi in via Caetani. Pochi minuti prima aveva ricevuto dalla Questura la segnalazione di una macchina sospetta. Mi indicò anche una parte della targa: Roma N5. Impiegai sei o sette minuti ad arrivare in via Caetani», racconta l’ex generale. Cornacchia aprì il bagagliaio della Renault con un piede di porco che aveva con sé, e si trovò davanti a una coperta, in cui era avvolto il corpo del presidente della Dc.
A TPI Cornacchia racconta che durante i giorni del sequestro Moro si rivolse a un latitante di ’ndrangheta. «Contattai Antonio Varone, detto Rocco, per avere informazioni. Il suo capo era il fratello, Salvatore Varone». Il latitante, in ogni caso, non ebbe una parte determinante. «Rocco Varone mise come condizione quella di avere il benestare della mafia. Si recò da Frank Coppola, che stava a Pomezia. Appena entrò quello gli disse: ti daremo anche dei soldi, ma tu non ti devi interessare. Gli amici suoi non vogliono che torna vivo». Per quanto riguarda il ruolo della Cia, Cornacchia dice: «Ho sempre precisato, almeno per quello che ho potuto, in virtù del lavoro fatto, che sia l’URSS sia gli americani volevano che Moro fosse eliminato, ma non fisicamente, dal punto di vista politico».
E il ruolo del funzionario Usa Steve Pieczenik? «Lui venne inviato dal dipartimento per far parte del comitato degli esperti, perché era pratico di sequestri di persona. Lui era venuto effettivamente per darsi da fare, liberare Moro e farlo tornare vivo. Poi, man mano che si andò avanti, capì che questo non sarebbe accaduto».
Infine, per quanto riguarda l’operato della commissione d’inchiesta, Cornacchia dice: «Fioroni ha fatto un lavoro certosino, ma era consapevole che non avrebbe portato a nulla. Sul caso Moro aveva ragione Italo Calvino, che già a maggio ’78 sul Corriere della Sera scrisse che la verità non sarebbe mai venuta a galla. A mio avviso tutte le istituzioni più interessate sapevano dove si trovasse. Non l’hanno voluto liberare».
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