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    Padroni a casa vostra: lo strapotere di Airbnb alimenta la turistificazione delle città italiane

    Prima i centri storici e ora anche i quartieri limitrofi. Gli affitti brevi impoveriscono le città, culturalmente ed economicamente. A vantaggio dei privati. Ma il governo non vuole frenare il mercato

    Di Maurizio Tarantino
    Pubblicato il 9 Dic. 2022 alle 11:20

    Una delle ultime emergenze che le città d’arte si trovano ad affrontare in questi mesi post pandemici riguarda il fenomeno degli affitti brevi e delle piattaforme digitali a questi preposte che, dopo un periodo di crisi, sono esplose in maniera incontrollata. Lo stesso governo Meloni, infatti, ha dovuto prenderne atto, ed è di questi giorni la notizia di un’imminente legge finalizzata a una “stretta” sul fenomeno degli affitti brevi, comunemente chiamati “casa-vacanze”.

    La piattaforma egemone in questo settore è Airbnb, il portale di prenotazioni online di appartamenti e stanze nato nel 2008 a San Francisco, negli Usa. Nel giro di pochi anni si è diffuso a macchia d’olio su tutto il pianeta e oggi, con le nuove implementazioni, rappresenta una seria minaccia per tutto il comparto alberghiero dei Paesi a forte vocazione turistica e in generale per l’identità, le tradizioni e il tessuto sociale delle città d’arte.

    Davide contro Golia
    Nato come un fenomeno di sharing economy, ovvero la condivisione di beni in affitto, che grazie al web permetteva all’inizio grandi risparmi a chi fruiva di stanze private o appartamenti sfitti, la piattaforma è cresciuta in maniera esponenziale al punto che oggi è studiata come una delle cause di trasformazione sociale e antropologica delle città, in particolar modo legata al processo di gentrificazione dei centri urbani e dei quartieri residenziali. Negli ultimi sei mesi del 2022, sulla questione Airbnb si è generato un vero e proprio allarme sociale in diverse città italiane, come Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Bologna. I centri storici, ma anche i quartieri di prima cintura, stanno cambiando in maniera preoccupante i loro connotati, perdendo la composizione sociale, commerciale, artigianale, trasformandosi in aree urbane omologate alle necessità di consumo del turismo di massa e pertanto sempre più povere di identità culturali e di ricchezza antropologica e sociale. Un impoverimento che colpisce e stravolge l’economia cittadina, in particolare le tipicità legate alla ristorazione, con l’esplosione del fenomeno dello street food, ma anche il piccolo artigianato, con la chiusura di molti piccoli negozi, botteghe, librerie che lasciano il posto al merchandising usa e getta del turismo di massa.

    La questione è ormai palese, al punto che la stessa Airbnb manifesta a TPI un’inaspettata e importante disponibilità a collaborare con le istituzioni per il superamento del problema,  dicendosi pronta a condividere il proprio know-how, a partire dalle banche dati, per costituire una cabina di regia con il Ministero competente, ovvero quello della ministra Daniela Santanchè.

    Il sistema Airbnb, infatti, al pari di altre piattaforme simili, ha favorito un’economia fortemente concorrenziale, a tratti predatoria, rappresentando un esempio di capitalismo puro, teso al maggior profitto, senza i limiti di etica e sostenibilità sociale che l’attività imprenditoriale dovrebbe porsi. Il punto non è tanto da ricercarsi negli errori dell’iniziativa privata, ma piuttosto nella mancanza di regolamentazione da parte pubblica. Per molti anni, infatti, le pubbliche amministrazioni hanno assistito ignare al fenomeno in crescita esponenziale e in molti casi – da quando il fenomeno è esploso con tali caratteristiche, ovvero dal 2019 circa – la gestione della cosa pubblica, interessata chiaramente all’indotto turistico cittadino, ha fatto fatica a metabolizzare e capire il fenomeno. Solo oggi che il problema assume i connotati dell’emergenza, inizia a porsi il tema della regolamentazione di un settore per lungo tempo lasciato all’autogestione e per il quale si fa fatica a definirne l’impatto, sia economico che sociale.

    Il caso Bologna
    Prendiamo il caso di Bologna. Da settembre l’Università ha interrotto la modalità di erogazione della didattica online e, dopo 2 anni di scarsa frequentazione della città, migliaia di studenti sono tornati per frequentare i corsi, con una conseguente richiesta elevata di case in affitto. Quest’anno, però, si sono trovati di fronte alla dura realtà, quella dei prezzi inaccessibili delle stanze: circa 400 euro per una camera singola, anche 350 euro per un posto letto, con situazioni al limite del grottesco riguardo alla qualità degli spazi. Alcuni annunci pubblicizzavano case con un’altezza massima di 1,60 metri, posti letto su divani in soggiorno. Ma la situazione generale vede una indisponibilità del bene casa anche nei Comuni limitrofi.

    È accaduto che nei mesi di giugno, luglio, agosto e, viste le temperature elevate, anche nell’autunno, la città è esplosa di turisti, disposti a pagare cifre molte più alte per gli affitti brevi. Così, i proprietari, reduci da due anni di pandemia, hanno messo online gli appartamenti sfitti e, visti gli elevati guadagni, hanno ritenuto più conveniente destinare la proprietà a casa-vacanze piuttosto che all’affitto per studenti.

    Nelle ultime settimane diversi collettivi studenteschi hanno posto in atto occupazioni simboliche di appartamenti pubblici o spazi appartenenti all’Università, e organizzato assemblee aperte per affrontare il problema. Luca e Alessandro, animatori del collettivo “Casa vacante” che negli ultimi giorni ha promosso momenti di confronto sul tema, hanno portato all’attenzione dell’amministrazione comunale il problema degli studenti senza casa, proponendo l’istituzione di un tavolo con il Comune e l’Università e le associazioni studentesche. Airbnb è un fenomeno globale e spesso «i Comuni non hanno le leve per intervenire in questioni delicate come la contrattazione tra privati», come ci spiega Alice Corona docente di Statistica all’Università di Bologna e attivista di “Inside airbnb”, la piattaforma fondata a San Francisco da Murray Cox che insieme ad altri attivisti provenienti da varie parti del mondo mette in chiaro i numeri della Airbnb divisi per città. “Inside airbnb” si limita ad aggregare dati già presenti nella piattaforma ufficiale offrendo spaccati molto affidabili di come il fenomeno degli affitti brevi incide sulle città. Il sito è preso a riferimento non solo dai movimenti di sensibilizzazione e di protesta, ma anche dalle amministrazioni locali. Dal portale si evince che nella sola Bologna gli immobili in affitto su Airbnb sono 3895 con una media di occupazione di appartamento per anno di 65 giornate. A Firenze sono 11mila, 19 mila a Milano, 7mila a Napoli, 24 mila a Roma. È interessante notare che la media delle notti occupate per anno si aggira intorno a 70; questo significa che le case rimangono vuote per la gran parte dell’anno, mentre gli studenti, i lavoratori fuori sede, le famiglie non trovano casa o sono costretti a pagare cifre spropositate per degli appartamenti in condizioni non adeguate. L’effetto casa-vacanza, infatti, fa salire di molto il mercato degli affitti. Il dato che se ne desume è che i normali cittadini stanno subendo un enorme sfratto dai centri storici delle città.

    Le soluzioni europee
    In Europa la situazione non è migliore e alcune città hanno introdotto delle azioni totalmente inedite e fino a qualche anno fa impensabili. I centri urbani più avanti nelle iniziative che mirano ad arginare il fenomeno sono Berlino, Amsterdam e Barcellona. Nella capitale tedesca si è arrivati addirittura al divieto sugli affitti brevi; misura dalla quale poi si è fatta marcia indietro, tenendo però molto alta la guardia. La città di Berlino nel settembre del 2021, grazie a una raccolta firme di associazioni di categoria, gruppi di pressione, rappresentanze cittadine, ha raccolto 350 mila firme proponendo un referendum consultivo per espropriare le grandi proprietà immobiliari, in base all’Articolo 15 della Legge Fondamentale tedesca, in virtù della quale è concessa la nazionalizzazione di asset “per ragioni di pubblica utilità”. Il referendum, vinto con numeri altissimi dai promotori, ha chiesto l’esproprio alle compagnie del real estate che posseggono più di 3 mila immobili. Tra questi, colossi come Deutsche Wohen o Adler, che da soli detengono nel Paese più di 130 mila lotti. L’accusa è stata che la speculazione selvaggia sui prezzi – favorita dal fenomeno di gentrificazione dovuto in particolar modo agli affitti brevi – abbia portato a un raddoppio delle tariffe negli ultimi anni, causando una crisi dell’intero sistema sociale cittadino, visto che a Berlino gli appartamenti in affitto sono circa l’83 per cento del totale. La vittoria del referendum sull’esproprio ha avuto un forte impatto politico e ha posto i presupposti per una revisione della legge in materia di affitti, tale per cui si ipotizza una tassazione progressiva per chi ha introiti più alti provenienti dall’affitto, oltre alle limitazioni di un numero massimo di giornate affittabili. 

    Anche Barcellona è interessante come realtà da monitorare per gli impatti che Airbnb ha avuto sulla città: le Ramblas e il centro cittadino hanno storicamente avuto una popolazione residente fortemente identitaria costituita dai ceti popolari, con un forte concetto di condivisione e di vicinato. Il problema della gentrificazione della città qui è stato vissuto in maniera più forte rispetto ad altre città europee. Infatti, la Sindaca di Barcellona, Ada Colau, si è fortemente distinta proprio per le sue lotte per il diritto alla casa. Come accaduto per Berlino, dove negli anni Novanta dell’unificazione interi quartieri di proprietà pubblica della Berlino Est sono stati acquisiti da grandi società private, che si sono trovate a gestire il bene casa di intere zone della città con i principi capitalisti dell’impresa, in maniera analoga, a Barcellona, la crisi dei debiti sovrani – frutto di una bolla immobiliare che ha coinvolto tutta la Spagna – ha portato a un travaso di grandi proprietà nelle mani delle banche, che a loro volta hanno messo a rendita le case anche tramite i meccanismi di “turistificazione” della città. 

    Barcellona ha vissuto negli ultimi anni veri e propri fenomeni di rigetto verso il turismo, con manifestazioni della cittadinanza contro la gentrificazione dei quartieri e con larghe fette delle fasce popolari costrette ad abbandonare le case a causa degli aumenti di canoni. 

    Il fenomeno è molto problematico perché finisce per colpire l’identità primaria della città, spesso sconvolgendone i termini peculiari di attrattività.

    Questione di proprietà
    Pensiamo alla stessa dinamica trasferita nei Quartieri Spagnoli di Napoli, alla Vucciria o nel quartiere Ballarò di Palermo: quale sarebbe la perdita di queste città di fronte a tali fenomeni di omologazione? Indubbiamente bisognerà muoversi in fretta per porre rimedio, perché in entrambi gli esempi citati il processo è già in atto. Andrebbe analizzato a fondo il fenomeno del “property management”, ovvero le grandi società di intermediazione che gestiscono per conto terzi gli immobili, mettendoli in affitto sulle piattaforme. Si tratta di attori che tendono ad acquisire la più ampia fetta di mercato possibile, gestendo direttamente centinaia di appartamenti in ogni città. 

    In Italia il limite di distinzione tra il piccolo subaffittuario e il privato che agisce in property management è fissato in quattro appartamenti gestiti in intermediazione. Su 650 mila immobili affittati con la formula degli affitti brevi, le società che gestiscono più di 4 appartamenti sono una percentuale significativa e soprattutto in crescita.Il fenomeno infatti è in una fase esplosiva, secondo Enit, Agenzia nazionale del Turismo. Il turismo in Italia è aumentato del 172 per cento dal 2021 al 2022 e sull’anno prossimo si registra un ulteriore incremento delle prenotazioni del 125 per cento. In questo scenario i dati ci dicono che il fenomeno del property management sta lentamente erodendo il mercato degli hotel da 2 e 3 stelle. Per varie ragioni, il 20 per cento delle strutture alberghiere, specie in questa fascia, non hanno più riaperto dopo il Covid; tutto ciò mentre il mercato turistico è in aumento e fioriscono le academy e i corsi a pagamento che spingono i giovani a lanciarsi nel business del property management. È importante però distinguere questo fenomeno da quello dei piccoli affittuari che sono la larga maggioranza e che generano un’economia della condivisione sana, che a sua volta produce una ridistribuzione dell’indotto turistico e un abbassamento dei prezzi, portando un’economia diffusa nei ceti popolari delle città e nelle località turistiche, visto che – a differenza della Spagna e della Germania – in Italia i proprietari di casa sono molto diffusi in tutte le fasce della società e che in molte zone del Sud gli affitti brevi garantiscono tutt’ora una delle poche fonti di reddito familiare.

    La leva fiscale sul property management – dato su cui l’attuale governo non sembra voler intervenire – può essere un modo efficace per porre limiti, anche etici, a questi fenomeni predatori di capitalismo digitale. Bisogna poi intervenire sui parametri di qualità e quantità del servizio, valutando fino a che punto siamo disposti a mettere in vendita le nostre identità cittadine e locali a favore di un appiattimento generale che sta rendendo le città uguali, uniformi e sempre più simili a prodotti di consumo. 

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