Il 2022 rischia di essere ricordato come l’annus horribilis dell’agricoltura italiana. Aumento dei costi dell’energia, conflitto russo-ucraino, emergenza cinghiali, siccità e speculazioni sulle borse internazionali delle materie prime stanno mettendo in seria crisi un comparto, quello agroalimentare, che in Italia vale il 15 per cento del Pil. Come se non bastasse, anche la crisi del governo Draghi, che ha aperto la stagione elettorale mandando in soffitta misure che il mondo dell’agricoltura attendeva per sopravvivere a un presente già complicato.
I temi sul tavolo sono parecchi, ma solo lo scorso 26 luglio, il premier uscente ha incontrato il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, per discutere delle sfide europee e delle emergenze del comparto. Un incontro che, dopo 17 mesi dall’insediamento dell’esecutivo e con un governo dimissionario, è emblematico della disattenzione della politica verso un asset strategico per il nostro Paese.
A riprova, qualche settimana prima, a poche ore dall’apertura della crisi, tutti gli assessori all’Agricoltura delle venti Regioni italiane, hanno indetto all’unanimità, una conferenza stampa nella sede della Conferenza delle Regioni per sollecitare l’esecutivo ad approvare un decreto contro la cosiddetta emergenza cinghiali. Un testo già approvato dai delegati regionali, fermo da più di due mesi su qualche tavolo di Palazzo Chigi, prevede un allungamento del periodo di caccia di 60 giorni, allargando le maglie della legge 157/1992 e di dare alle Regioni la possibilità di effettuare piani di controllo e selezione. Insomma, se a Roma i partiti si dividono, di fronte alle sfide dei territori fanno fronte comune. A ricordare quell’appuntamento e a esprimere le sue preoccupazioni è proprio l’assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, Marco Protopapa: «Questa crisi di governo non ci ha aiutato, perché si rischia che alcuni temi finiscano nel dimenticatoio mentre le nostre aziende sono in affanno». Nell’ultima assemblea nazionale alla quale hanno preso parte tutti i leader dei maggiori partiti in campo, anche il presidente della Coldiretti è tornato sull’argomento: «È paradossale dover rinnovare la richiesta di un decreto promesso qualche mese fa e rimasto lettera morta, ma siamo davvero fuori tempo massimo per dare delle risposte a decine di migliaia di aziende che vedono il proprio lavoro cancellato da 2,3 milioni di animali proliferati senza controllo, con danni alla salute pubblica e alla sicurezza per i cittadini».
Secondo l’associazione dei coltivatori ci sono 800mila ettari di colture a rischio, più decine di allevamenti dove migliaia di capi sono stati già abbattuti in via preventiva, cancellando anni di lavoro e investimenti. Se c’è un settore in cui la politica ha mostrato ritardi e disattenzione è proprio questo. Anche i primi aiuti contro la peste suina sono arrivati quando il gong per l’esecutivo Draghi era già suonato, stanziando 25 milioni di euro di ristoro per le piccole e medie imprese della produzione primaria e le imprese dei settori della macellazione e trasformazione di carni suine, colpite indirettamente dalle restrizioni sulla movimentazione degli animali e sulla commercializzazione dei prodotti derivati. Stanziano i soldi, ma i cinghiali sono ancora tutti lì, e sono destinati ad aumentare. Anche perché non è facile per gli allevatori provvedere da soli. «Se uccido un cinghiale, poi devo smaltire la carcassa e il macello più vicino si trova a Orte. Idem se li catturo. Come ce li porto? Mica sono gattini che metto nel trasportino; e poi soprattutto chi paga?», raccontava uno degli allevatori della provincia di Roma scesi in piazza qualche mese fa.
Le domande sono tante per un problema che è oggettivamente complesso e per il quale gli spot della politica sono insufficienti. In più nelle zone rosse interessate dalla peste suina andranno distrutti anche paglia e fieno, e in una stagione particolarmente siccitosa rappresentano l’ennesima fonte di reddito andata in fumo.
Elemento primario della vita dell’uomo, in sua assenza ci siamo accorti della sua vitale importanza. Secondo l’elaborazione dei dati dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) e del Cnr nei primi cinque mesi del 2022 è caduto il 46 per cento di pioggia in meno rispetto alla media degli ultimi trent’anni. Questo calo contribuisce al mancato accumulo che in Italia tocca la quota irrisoria dell’11 per cento e alimenta la siccità. Secondo lo studio, nella primavera-estate del 2023 e 2024, la percentuale di terreni agricoli in condizioni di siccità potrebbero toccare il 40 per cento con evidenti ripercussioni sulla produzione. Ma se non piove, l’acqua che abbiamo non viene usata meglio. In Europa siamo il sesto Paese per perdite nella rete idrica e per questo uno degli ultimi annunci del premier Draghi prevedeva un “Piano acqua” e la nomina di un commissario ad hoc, ovviamente mai partiti. «È la sesta, grave siccità in vent’anni. Non possiamo continuare a farci travolgere dalle emergenze. È necessario avviare urgentemente un’azione di contrasto alle conseguenze dei cambiamenti climatici, aumentando la resilienza delle comunità. Etichettare la carenza idrica come problema agricolo sarebbe un errore gravissimo, perché a essere pregiudicato è l’equilibrio dell’intero territorio», torna a ribadire Francesco Vincenzi, presidente dell’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue (Anbi) che, insieme a Coldiretti, è promotore del Piano Laghetti, per costruire diecimila piccoli invasi in trent’anni, di cui 223 immediatamente cantierabili, per portare la raccolta dell’acqua piovana al 90 per cento.
Intanto, circa 234 mila aziende sono in ginocchio, perché si trovano a produrre in perdita a causa dei rincari scatenati dalla siccità e delle tariffe energetiche. Le associazioni stimano che quest’anno, in Italia, si raccoglierà il 30 per cento in meno di grano e in alcuni territori, come nel basso Lazio, gli agricoltori stanno rinunciando al secondo raccolto di ottobre. Sono molte le Regioni che hanno già dichiarato lo stato di emergenza, mentre è iniziata la razionalizzazione dell’acqua per uso agricolo e in alcuni casi sono arrivate persino le autobotti.
Per ortaggi e frutta in alcuni territori si arriva al 70 per cento in meno, con danni alle ciliegie in Puglia ed Emilia Romagna; angurie e meloni scottati dal caldo in Veneto; pere e albicocche rovinate nel Ferrarese; barbatelle bruciate che perdono le foglie nei vigneti toscani attorno a Firenze; pesche soffocate dalla calura che cadono dai rami prima di riuscire a svilupparsi completamente e giovani ulivi in stress idrico; nel Lazio sono a rischio 80mila piante di ulivo. A soffrire il caldo sono anche gli animali nelle fattorie, dove le mucche, con le alte temperature, stanno producendo per lo stress fino al 20 per cento di latte in meno. Problemi anche per gli impianti di acquacoltura, soprattutto nella zona del Delta del Po dove è già andato perso il 20 per cento della produzione di vongole, ma si segnalano danni anche per quella di cozze.
In Piemonte, terra di noti vini, racconta l’assessore Protopapa, «c’è molta preoccupazione del comparto vitivinicolo legata a una maturazione precoce dell’uva e quindi un anticipo consistente della raccolta e della vendemmia, con possibili ripercussioni sulla quantità e qualità del raccolto. Questo è un aspetto che ha messo in evidenza delle criticità dell’approvvigionamento idrico verso la cultura vinicola, cosa che non era mai stata presa in considerazione». E poi rassicura: «Le risaie piemontesi non scompariranno, ma con questa difficoltà di acqua, dovremo trovare delle tecniche che già dall’inverno ci consentano di mantenere l’acqua per il periodo estivo oppure valutare delle semine da asciutta come fa la Lombardia. Le nostre risaie sono in sommersione e danno anche un valore al nostro paesaggio con i canali e le sorgenti». Su Sorella Acqua non è rimasta indifferente neppure la Cei, che ha rivolto un messaggio all’assemblea dell’Anbi, firmato dal presidente, il cardinale Matteo Zuppi: «Sulla siccità, perché continuiamo a sorprenderci come fosse sempre la prima volta? Sono necessari investimenti rapidi e strutturali per rafforzare l’autosufficienza alimentare ed energetica, attraverso impianti idroelettrici e fotovoltaici».
Sul grano si gioca forse la partita più importante a livello mondiale. Perché se nella mietitura registriamo una perdita del 30 per cento dei raccolti, sulle Borse internazionali i titoli del grano volano dando la spinta alla speculazione e con il rischio di diventare i nuovi subprime del 2008, quelli della grande crisi finanziaria. A spiegare bene cosa sta accadendo è il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti: «I mercati sono globali, quindi l’andamento dei prezzi risente di tutte le dinamiche esterne al sistema, che modificano il valore delle produzioni sia in termini di previsioni o, in questo caso, con la guerra». Un meccanismo che si spiega facilmente nei fatti. Nei primi giorni di luglio di fronte alla notizia dell’aumento di produzione del grano in Canada, alla Borsa di Foggia si è verificata un’oscillazione che ha fatto crollare il prezzo del cereale di 23 euro a tonnellata, generando le polemiche e lo scontento dei nostri coltivatori che, a fronte di una minore offerta di grano italiano, si aspetterebbero di incassare un prezzo più alto. «Se il prezzo del grano scende ci aspettiamo un segnale di attenzione da parte dell’industria alimentare o al contrario diventa difficile capire perché i prezzi sono saliti così – continua Giansanti –, queste oscillazioni andranno valutate nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, ma a questo punto credo che ci siano gli elementi per sperare che ci sia un abbassamento del costo del prodotto trasformato. Però i dati che abbiamo non sono rassicuranti. Finché perdurerà la guerra in Ucraina, la non stabilità delle consegne da parte dei Paesi coinvolti genererà molta volatilità sui mercati».
Le difficoltà raccontate finora hanno un unico destinatario: il consumatore. A fronte di una catena di rincari, innescata soprattutto dal conflitto in Ucraina sulle tariffe energetiche, il mancato approvvigionamento di materie prime, fertilizzanti e rincari del settore della logistica, il portafoglio del consumatore è sempre più leggero. Coldiretti parla di una “stangata” da 9 miliardi di euro per le famiglie italiane solo per la spesa alimentare, di cui 1,9 miliardi per la verdura e un aggravio di 1,6 miliardi per pane, pasta e riso. Secondo Giansanti di Confagricoltura, «bisogna intervenire sui costi dell’energia, ne beneficerebbero le aziende, ma anche i consumatori. Altrimenti rischiamo che i cittadini modificheranno i consumi, andando verso prodotti di bassissimo valore non prodotti in Italia».
E le grandi catene che fanno? «Già da inizio anno abbiamo registrato aumenti dei listini che nel giro di pochi mesi hanno raggiunto la doppia cifra percentuale. In prima battuta abbiamo fatto da argine a questi aumenti, cercando di riversarne sul consumatore solo una piccola parte (fino a qualche settimana fa pochi punti percentuali), ma il perdurare dell’andamento inflattivo e l’arrivo di ulteriori richieste di aumento dai fornitori, ci costringe sempre di più a cedere all’aumento dei prezzi». A parlare è l’amministratrice delegata di Coop Italia, Maura Latini, che rappresenta una rete di 1200 punti vendita su tutto il territorio nazionale. «Dal canto nostro – prosegue Latini – abbiamo messo in campo nuove azioni a tutela del potere d’acquisto e stiamo puntando molto sul nostro prodotto a marchio che è una proposta di qualità ma a costi più contenuti rispetto ai grandi brand con l’arrivo, nell’arco di un paio d’anni, di cinquemila nuovi prodotti. Ma certo da soli non possiamo farcela. Abbiamo aperto un dialogo con il passato Governo e a chi arriverà chiediamo una particolare attenzione sulla questione dei prezzi, per esempio attuando una sterilizzazione selettiva dell’Iva su alcuni beni di prima necessità».
Ma il futuro del comparto si gioca soprattutto in Europa e la speranza di tutti gli attori in campo è quella di avere presto un governo con pieni poteri che possa trattare per l’Italia sulla riforma della Politica agricola comune (Pac), sul sistema di etichettatura e sul Green deal europeo. Per Giansanti, «questi tre temi avranno un impatto economico importante, solo la Pac vale per l’Italia 35 miliardi di euro e per l’Europa è una strategia da quasi 400 miliardi di euro. E sul Green deal europeo siamo convinti che il futuro debba passare per un nuovo modello virtuoso di fare agricoltura e, invece, quello che viene chiesto agli agricoltori è di produrre significativamente meno, con una perdita di reddito e un aumento delle importazioni da fuori Europa. Non possiamo permetterlo». E poi c’è il Nutriscore, il nuovo sistema di etichettatura basato su un algoritmo, fortemente voluto da Paesi come Germania e Francia, che vorrebbero introdurre un’etichettatura a semaforo in base ai contenuti in grassi, zuccheri o sale. «Cento grammi di olio non sono uguali a cento grammi di bibite gassate», commenta Giansanti e secondo tutti gli attori coinvolti si tratta di un sistema che va contro la corretta informazione al consumatore. Meglio sarebbe il “Nutrinform Battery”, proposto dall’Italia: una rappresentazione grafica che utilizza il simbolo della batteria che contiene l’indicazione quantitativa del contenuto di energia, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale per singola porzione, in rapporto al fabbisogno giornaliero raccomandato al consumatore.
È troppo alta la posta per il sistema agroalimentare italiano per perdere tempo a piangere la caduta del governo Draghi. Il motto sembra essere tornato quello di sempre “meglio avere un governo autorevole, forte, di prospettiva”, perché di vivacchiare non c’è proprio più tempo.
Sistemi fuorvianti, discriminatori e incompleti che finiscono paradossalmente per escludere dalla dieta alimenti sani e naturali, che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali.
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