C’è chi fa shopping ogni fine settimana. Chi è dipendente dall’acquisto compulsivo, e non riesce a sfuggire dal ciclo compra-usa-getta. E chi ricerca su Google abbigliamento sostenibile. Ma nonostante una maggiore consapevolezza del suo impatto sul pianeta, la moda continua a essere una delle industrie più inquinanti al mondo e il fast fashion è sempre vivo. Si tratta di un modello di business che punta a massimizzare il numero di capi venduti a prezzi molto bassi e con un continuo ricambio del guardaroba. Alimentato dai social network che facilitano la dipendenza dei giovani, ma anche degli adulti, e un trend che ha conseguenze disastrose sull’ambiente perché è responsabile del 10 per cento dei gas serra prodotti ogni anno e del 20 per cento dello spreco globale di acqua.
La tendenza all’abbigliamento usa e getta continua e oggi si è arrivati a parlare persino di ultra-fast fashion. È il caso del marchio cinese Shein, il sito web di vendita al dettaglio di moda il cui fatturato annuo è cresciuto da 2 miliardi di dollari nel 2018 a 15,7 miliardi nel 2021. Recentemente è stato valutato 100 miliardi di dollari. Il suo successo lo deve a un attento lavoro di marketing sui vari social network per tenere traccia delle tendenze dei giovani. Ogni giorno introduce più di 6mila nuovi prodotti, alcuni costano anche soltanto 5 dollari.
Ma cosa c’è dietro ai colossi del fast fashion? «Un sistema generalizzato di sfruttamento estremo delle risorse ambientali e dei lavoratori per alimentare un modello di business lineare, orientato alla massimizzazione dei profitti, alla proliferazione delle collezioni e alla compressione dei costi». Spiega a TPI Deborah Lucchetti coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, parte del network globale Clean Clothes Campaign composto di attivisti, Ong e sindacati che da oltre trent’anni denuncia le condizioni di lavoro di milioni di operaie impiegate nelle filiere internazionali della moda.
Si parla molto di sostenibilità ambientale ma va tenuta in considerazione anche quella sociale perché siamo ancora lontani da condizioni di lavoro ottimali. «Uno dei grandi limiti del dibattito prevalente sulla sostenibilità riguarda il fatto che si abbraccia una visione che guarda esclusivamente all’ambiente, offuscando la dimensione sociale. Entrambe sono invece profondamente connesse», sottolinea Deborah Lucchetti che aggiunge: «Si tengono sotto traccia le condizioni di lavoro pessime che vivono milioni di lavoratrici mentre i grandi marchi accumulano ingenti profitti perché non si intende affrontare la causa strutturale alla base della crisi sistemica: il modello di produzione e lo squilibrio di potere tra capitale e lavoro nelle filiere internazionali».
Recentemente alcuni dipendenti che lavorano nelle fabbriche che forniscono Shein hanno dichiarato di aver lavorato più di 75 ore soltanto in una settimana e con un solo giorno libero al mese. A chi lo accusa di essere poco green, Shein risponde affermando che utilizza per il 60 per cento dei suoi prodotti del materiale riciclato. «Si tratta di un perfetto caso di greenwashing, in cui si cerca di conquistare il consumatore pubblicizzando una pratica di sostenibilità per distrarlo dal modello generale di business che mette a rischio lo stesso ambiente che si dice di tutelare, oltre ai lavoratori».
Il settore della moda a livello globale è pronto a ripartire dopo due anni di crisi a causa della pandemia, ma dovrà farlo incominciando con il rivedere i propri modelli di filiera per renderli il più possibile resilienti. Per riuscire a mitigare i cambiamenti climatici, l’industria della moda deve ridurre le emissioni di gas serra a circa 1,1 miliardi di tonnellate entro il 2030, circa la metà della cifra odierna. Per riuscirci è necessario sostituire i combustibili fossili con le fonti rinnovabili, con un cambiamento di rotta anche da parte delle aziende e dei consumatori. A cominciare dal modello della ultra-fast fashion accelerato dall’e-commerce con la complicità di vettori social come TikTok che si rivolge prevalentemente a giovani, tra i target principali dei colossi della moda. «Un trend pericoloso e dannoso, che va disincentivato. La strategia europea per il tessile sostenibile e circolare appena lanciata dall’Unione europea può andare in questa direzione ma deve includere gli aspetti sociali, finora ignorati, e norme che obblighino le imprese a cambiare radicalmente modello di produzione e consumo», suggerisce Lucchetti.
La Commissione europea lo scorso 30 marzo ha presentato un pacchetto di proposte per l’economia circolare, tassello del Green Deal, per rendere i prodotti sostenibili la norma nell’Ue, promuovendo nuove strategie per rendere quasi tutti i beni fisici sul mercato dell’Unione più rispettosi dell’ambiente, circolari ed efficienti dal punto di vista energetico durante l’intero ciclo di vita: dalla fase di progettazione fino all’uso quotidiano. Definisce delle linee guida per garantire che entro il 2030 i prodotti tessili immessi sul mercato siano longevi e riciclabili, per contrastare il fast fashion. Dovranno essere realizzati il più possibile con fibre riciclate, privi di sostanze pericolose, e garantendo che la loro produzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti sociali.
Invitando le imprese a diminuire il numero di collezioni per anno, il fast fashion dovrebbe passare di moda e i consumatori potranno beneficiare più a lungo di tessuti di alta qualità. Dal report The State of Fashion 2022, scritto da McKinsey in collaborazione con Business of Fashion, emerge infatti che le aziende concentreranno la loro attenzione sulla sostenibilità, e in particolare la circolarità e il riciclo a circuito chiuso all’interno del sistema globale della moda. Perché stando a quanto emerge dai dati di Textile Exchange, meno del 10 per cento del mercato tessile globale è composto da materiali riciclati.
In rapida crescita è il settore della rivendita che ha avuto un’ulteriore accelerazione negli ultimi tre anni nel corso della pandemia. Si prevede che il mercato raggiungerà i 60 miliardi di dollari di vendite entro il 2025, facilitando un aumento del riutilizzo e della durata dei pezzi. Ciò è stato guidato principalmente da una maggiore attenzione dei consumatori più giovani alla sostenibilità e da una tendenza in crescita per social shopping e comunità online. Soprattutto i Millennials e la Generazione Z stanno iniziando a acquistare attraverso le app di seconda mano come Vinted, Vinokilo e Depop. E cresce anche l’interesse del consumatore di fascia alta nei confronti dell’usato di lusso. «Si tratta di numeri interessanti, ma ancora molto piccoli rispetto alla dimensione dell’industria della moda stimata in 3mila miliardi di euro», racconta a TPI Bernard Osta Chief Strategy Officer di Vestiaire Collective, l’app per la vendita di abiti e accessori di moda di seconda mano lanciata a Parigi nel 2009, con un inventario di 3 milioni di articoli che include 140mila nuove inserzioni ogni settimana, e più di dieci milioni di membri in tutto il mondo. «In qualità di leader del nostro settore, è nostra responsabilità promuovere una maggiore penetrazione dell’usato nella moda, perché i vantaggi sono abbastanza visibili ed è per questo che l’usato sta crescendo così velocemente». Sostiene Osta specificando che acquistare con Vestiaire Collective è un’alternativa efficace alla dipendenza dal fast fashion perché consente di risparmiare il 90 per cento del costo ambientale di un nuovo articolo e che aiuta a ridurre il consumo eccessivo scambiando meno articoli ma di qualità migliore.
C’è già chi prevede che nei prossimi dieci anni la rivendita della moda diventerà più grande della vendita al dettaglio di moda. I consumatori eviteranno sempre di più i vestiti a buon mercato e preferiranno invece i prodotti di marca usati. «Naturalmente la rivendita non può esistere senza la produzione di beni di lusso di prima mano, un mercato che deve continuare a innovare. Ma crediamo anche che sempre più consumatori e marchi di lusso capiranno l’importanza della sostenibilità e abbracceranno la circolarità». Spiega Osta che il successo di Vestiaire Collective si basa sulla tecnologia e sulla capacità di sviluppare il mercato più efficiente ed ecologico a vantaggio dei clienti. «Sviluppando l’algoritmo giusto, promuoviamo le transazioni tra persone che si trovano vicine che mostrano l’impronta di carbonio più bassa, al contrario delle transazioni provenienti da un’altra regione. Gli articoli che il cliente visualizza per primi saranno sempre quelli geograficamente a lui più vicini. Inoltre, stiamo lavorando a stretto contatto con marchi e organizzazioni (World Economic Forum, Sustainable Markets Initiatives) per promuovere l’uso dell’ID digitale e facilitare sia i processi di quotazione che di autenticazione.».
Mentre si espande il settore della rivendita, contribuendo a plasmare il panorama della vendita al dettaglio, la moda fa dunque incursione nell’ambiente digitale e ne coglie le opportunità entusiasmanti. Speriamo di essere vicini a un punto di svolta nel ripensare al modo in cui le persone dovranno consumare la moda, le indicazioni sono già chiare: puntare sulla qualità rispetto alla quantità.
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