Lo scorso 25 marzo lo Stato della Florida ha emanato una legge che vieta ai minori di 14 anni l’accesso ai social media e impone il consenso dei genitori per chi ha tra i 14 e i 16 anni. Restrizioni simili erano già state varate l’anno scorso da Utah, Arkansas, Louisiana, Ohio e Texas. A febbraio il sindaco di New York Eric Adams ha annunciato che farà causa a Facebook, Instagram, TikTok e YouTube, accusandoli di «mettere a rischio la salute mentale dei giovani» sulla scia di un contenzioso avviato recentemente da trenta Stati americani con in testa California e Colorado.
In effetti, negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi studi sugli adolescenti che mettono in relazione l’utilizzo dei social media con problemi di natura psichica. Negli Usa un’indagine commissionata dal Surgeon general, la massima autorità sanitaria nazionale, ha evidenziato che tra i 12 e i 15 anni trascorrere più di tre ore al giorno sui social comporta un rischio doppio di andare incontro a depressione e ansia.
La stessa indagine ha rilevato che le piattaforme digitali potrebbero aver contribuito a 300mila nuovi casi di depressione tra gli universitari. In Italia da uno studio a campione dell’Istituto Superiore di Sanità è emerso che quasi 100mila ragazzi (il 2,5% di coloro che hanno tra gli 11 e i 17 anni) presentano caratteristiche compatibili con la presenza di una dipendenza da social media.
Secondo lo psicologo statunitense Jonathan Haidt – che ha da poco pubblicato il libro “The Anxious Generation” – bisognerebbe ritardare l’accesso alle piattaforme almeno fino ai 16 anni.
Ma nella comunità scientifica non sono tutti d’accordo con questa visione “repressiva” anti-social. Anzi. «Dare la colpa allo strumento significa banalizzare una difficoltà genitoriale», osserva Rino Agostiniani, consigliere della Società Italiana di Pediatria. Che si chiede: «È colpa dei social se i giovani diventano depressi oppure i giovani sono depressi perché non li appassiona la loro vita e quindi si rifugiamo nei social?».
Ancora più nette sono le perplessità di Matteo Lancini, psichiatra e presidente della Fondazione Minotauro, specializzata proprio nell’assistenza agli adolescenti: «Viviamo in una società in cui tutti siamo sempre connessi online e i bambini vengono mostrati dai genitori sui social fin da quando vanno all’asilo. Poi però, quando i ragazzi cercano disperatamente di inserirsi in questa società, partono gli appelli per vietare loro Internet. Una contraddizione terribile».
«Anziché chiedere ai ragazzi se pensano al suicidio o se si vedono brutti in una società in cui l’estetica è diventata centrale – prosegue Lancini, autore di “Sii te stesso a modo mio” – gli adulti pensano che l’intervento educativo sia limitare il cellulare».
«I social – spiega – sono diventati gli unici spazi in cui i giovani possono fare esperienze di socializzazione fuori dal controllo degli adulti. Fare queste esperienze è una necessità evolutiva, ma gli adulti, fragili e angosciati, preferiscono tenere i ragazzi chiusi in casa che lasciarli andare liberi in giro. Glielo dico con una battuta: i social creano dipendenza? Sì, ma gliel’hanno iniettata i loro genitori».
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