«Duemila anni fa, l’orgoglio più grande era poter dire “Civis romanus sum”»: così diceva il presidente americano John Fitzgerald Kennedy nel discorso che è stato consegnato alla storia per il suo celebre «Ich bin ein Berliner». Attraverso questa frase, pronunciata in tutt’altro contesto, abbiamo chiara una cosa: la cittadinanza, ciò che permette di godere a pieno i diritti civili e politici di uno Stato, duemila anni fa era vista come un privilegio, mentre oggi, con tutte le differenze che possiamo trovare tra Paese e Paese, è un diritto inalienabile, ciò che ci distingue da quelli che, prima dell’avvento delle libertà dell’età contemporanea, erano i sudditi.
Tuttavia, pur in un mondo globalizzato, il modo per acquisire una cittadinanza può variare notevolmente e cambia nelle diverse situazioni: fattori come la posizione geografica del singolo Stato o la sua storia possono essere determinanti, e come tali possono variare nel tempo.
Una cosa va chiarita: non esiste un sistema univocamente perfetto per attribuire la cittadinanza, in tal caso lo adotterebbero allo stesso modo tutti i Paesi al mondo, ma esistono modi diversi che possono adattarsi in modo funzionale a ciascuno Stato e alla sua specifica realtà.
Questione di sangue
In Italia il primo passaggio fondamentale in questo senso arrivò prima ancora che il nostro Paese prendesse il proprio nome, quando nel 1848 Carlo Alberto promulgò lo Statuto che, nel 1861, sarebbe poi divenuto la Costituzione italiana. Il principio base, che ancora oggi ereditiamo ed è in vigore – con le dovute eccezioni – è lo Ius Sangunis, ovvero la trasmissione della cittadinanza tra i genitori e i figli.
All’epoca dello Statuto, tuttavia, era più corretto dire “dal padre” ai figli, dal momento che all’epoca vigeva il principio patriarcale del paterfamilias: era il padre e trasmettere la cittadinanza ai figli e, ove straniera, alla moglie, così come la donna poteva perdere la cittadinanza italiana se sposata a un cittadino straniero proveniente da un Paese ove l’ordinamento non prevedeva una doppia cittadinanza, come messo nero su bianco nella legge a riguardo del 1912.
Tale principio, oggi totalmente obsoleto, rimase in vigore fino all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ed è stato successivamente espanso anche ai figli di madre italiana e padre straniero.
Dal dopoguerra a oggi, tuttavia, molte cose nel mondo sono cambiate. La società è divenuta via via più globalizzata, i processi migratori sono aumentati notevolmente, sempre più persone si trasferiscono da un Paese all’altro con una velocità che nei secoli passati non sarebbe stata possibile. E sempre più persone si sono costruite una vita in posti remoti, lontani dal luogo in cui sono nate ma che, talvolta con molte difficoltà, altre in maniera naturale, iniziano a chiamare casa.
Con una popolazione di non cittadini residenti sempre più ampia, talvolta pienamente integrata, molti Paesi hanno iniziato a porsi la questione se le leggi di cittadinanza siano ancora adeguate ai tempi: l’Italia, come il dibattito sullo Ius Scholae dimostra, è tra questi.
Il caso americano
Il nostro Paese ha dunque sempre trasmesso la cittadinanza in primis tramite lo Ius Sanguinis, garantendola e rendendola accessibile anche a chi è originario del nostro Paese ma vive lontano. Al tempo stesso le regole per acquisire la cittadinanza per gli stranieri residenti sono chiare ma più stringenti rispetto a quelle di altri Stati e questo ha sollevato un dibattito.
Molte volte nel dibattito pubblico italiano è entrato il concetto di Ius Soli, termine con cui si indica il diritto per chiunque nasca in un determinato territorio di acquisire la cittadinanza di quel Paese, diritto che esiste in diversi Stati sia in forma pura che in forma temperata.
Il grosso di questi Paesi si trova nelle Americhe, a partire dagli Stati Uniti, dove chiunque nasca entro i loro confini acquisisce immediatamente la cittadinanza americana.
Tale principio nasce sulla scia del fatto che tutti gli Stati delle Americhe hanno una forte storia di immigrazione, legata in parte al passato coloniale e in parte al successivo riconoscimento di un chiaro diritto alla cittadinanza durante l’abolizione della schiavitù.
I Paesi dell’Europa, l’Italia in particolare, sono per dimensioni e conformazione geografica molto diversi dagli Stati americani e tale diritto, replicato allo stesso identico modo, sarebbe non solo complesso da attuare, ma rischierebbe anche di essere distorto in gran parte del proprio significato.
Un’esigenza
Probabilmente, in un Paese come il nostro, meta di numerosi sbarchi di migranti che gran parte delle volte non hanno l’Italia come meta definitiva, aver parlato di Ius Soli quando venivano proposte leggi sulla cittadinanza legate più alla scuola che al luogo di nascita ha contribuito a sabotare un dibattito che, comunque la si pensi, è giusto affrontare.
Oggi, sul tavolo, la chiave di lettura è quella di passare dalla scuola, dall’integrazione che questa istituzione garantisce e rendere italiano chi ha fatto almeno una parte del percorso scolastico. Non possiamo sapere se sia un modello perfetto o meno perché non esiste un modo giusto e un modo sbagliato in termini assoluti per garantire la cittadinanza, ma i dati dicono che ove lo Ius Scholae dovesse diventare legge, circa 600mila persone acquisirebbero la cittadinanza italiana nei prossimi cinque anni.
In altri termini, la questione della cittadinanza e di persone che a oggi non la hanno ma vivono nel nostro Paese è qualcosa che non riguarda uno spicchio marginale di popolazione, ma un numero di persone pari circa agli abitanti di Palermo, e questo nell’immediato. Anche per questo, il dibattito non può perdersi dietro la demagogia, dietro il fatto che questi nuovi italiani potrebbero rappresentare un bacino elettorale che faccia gli interessi dell’una o dell’altra parte politica: non solo parliamo di una porzione ampia e variegata della popolazione, ma la storia insegna che tali calcoli vengono smentiti più spesso di quanto si pensi. Idem, non si può nemmeno ridurre il dibattito al fatto che mangiare la pizza e la pastasciutta renda più o meno italiani, come se mangiare il sushi o il ceviche rischiasse di farci perdere la cittadinanza.
Stiamo parlando prima di tutto di diritti, e di un’esigenza sentita da una parte rilevante della popolazione: esiste un sistema perfetto per rispondere a tale esigenza? No. Ma proprio per questo, bisogna cercare di fornire questa risposta, senza retoriche e demagogie.
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