Si entra nello studio di Giuseppe Supino quasi fosse un’iniziazione. In un rigoroso e assoluto ordine, che richiama alla memoria la pittura analitica, è contenuto l’universo di questo pittore «di novantuno anni appena», come subito precisa mentre gli occhi scuri si illuminano. Appassionato di arte figurativa, è stato discepolo di uno dei più grandi maestri del Novecento, Giorgio de Chirico, di cui oggi resta l’ultimo allievo.
Lentamente, aggrappato a un bastone, Supino mi fa strada nel suo mondo di tempere e cavalletti. Ci addentriamo in questo luminoso scrigno di vetro, al quinto piano di un palazzo anni Sessanta, che si affaccia sull’intero Golfo di Gaeta. «Vede», indica Supino, «da Ponza sino a Napoli, dal Redentore fino al Vesuvio, uno spettacolo più bello di così non c’è». Poi avanza piano, appoggiandosi al bastone, verso una poltroncina dietro il tavolo da disegno.
«Tutto, forse la mia intera vita, è iniziata da un incidente. A sette anni mi operarono alla gamba, e andai in setticemia. Mi vietarono di alzarmi, e dal letto non facevo altro che disegnare. Le elementari le ho trascorse in clinica, allievo di una suora, mentre le medie e il ginnasio in classe, dove andavo con le stampelle». Quel dolore fisico lancinante, non pregiudica però i suoi desideri.
«A quindici anni mi trasferii nella Capitale, in un istituto in piazza San Salvatore in Lauro, per frequentare il liceo artistico. Il mio maestro all’epoca era Domenico Purificato, che mi aveva preso a benvolere. Un giorno mi chiese se ero mai andato al Caffè Greco, ritrovo dei più importanti artisti, e decise di accompagnarmi». Ed è qui che il giovane Supino viene introdotto al salotto capitolino per eccellenza, dove incontra anche Giorgio De Chirico.
L’incidente da cui tutto iniziò
«Chiese a Purificato se fossi per caso suo figlio, e quando lui rispose che ero un allievo domandò in cosa fossi bravo. Purificato rispose che non ero ancora molto capace nella pittura, ma che nel disegno ero eccellente. De Chirico, forse incuriosito dalla mia timidezza e ingenuità, mi invitò nel suo studio a Piazza di Spagna. Qualche giorno dopo mi presentai, venni annunciato e il maestro mi ricevette. Mi diede un foglio e una matita». Il compito era quello di disegnare due melagrane.
Quando Supino le ebbe terminate, il maestro le valutò attentamente. «Mi disse che avevo una bella mano. E poi, con quella sua dolcezza misteriosa, mi diede una grande lezione: non pensare mai a quello che hai fatto e nemmeno a quello che farai. L’unica cosa che conta è il talento. Lavora, il resto verrà da sé». Diventa, quell’ammonizione, una sorta di mantra che Supino porta ancora custodita in una busta di carta nella sua scrivania.
Nasce un rapporto stretto, De Chirico insegna a Supino numerose tecniche, gli svela i misteri delle tempere e di come queste venivano usate nel Quattrocento, critica aspramente gli esperimenti formali e tecnici delle avanguardie, mette al bando il collage, la scomposizione e il dinamismo futurista. Esalta invece il disegno, il modellato e il chiaroscuro. «Ricordo ancora quando di fronte a un’opera incapace di significare diceva che l’artista aveva espresso bene ciò che aveva frainteso, ovvero il nulla. Ma soprattutto il Maestro mi trasmise la passione incondizionata per l’arte e di come il tatto non sia solo nei polpastrelli, ma soprattutto nello sguardo».
Dalle ore trascorse nello studio di Piazza di Spagna, Supino apprende la modestia e l’umiltà che fonde agli insegnamenti di Purificato. «Con lui ho conosciuto l’amore per la mia terra, che è sempre presente in tutti i miei lavori, ma anche come per capire un’opera sia necessario usare prima le percezioni fisiche e poi il sesto senso, quello dell’anima». Un senso che s’affina studiando i grandi del passato e le loro tecniche, ma anche insinuandosi nei misteri dell’arte per capire la propria strada che per Supino prende un doppio binario: quello dell’insegnamento («Vinsi il concorso del 1958, tra 1.700 candidati risultai secondo e per 47 anni non ho mai smesso di insegnare») e della “sanguigna”, pietra prediletta dai grandi come Leonardo e Michelangelo, e oggi protagonista delle sue opere più recenti.
«La sanguigna è una pietra grassa che, come notava Vasari, viene da’ monti di Alemagna. Amata fin dal Rinascimento, ha un segno che non va via: non è possibile cancellarla. C’è morbidezza, bellezza e sostanza nel segno. È quasi miracolosa. Ancora oggi me la faccio mandare da Firenze, e per me rappresenta virtuosismo e armonia».
Una vita per la pittura
Nella sua carriera di artista, Supino ha esposto in tutta Italia, e non fa mistero della sua dedizione alle tempere: «Lo scopo della mia vita è la pittura. Non ho sposato una donna, ma l’arte. La pittura è la trasformazione alchemica di un’immensa eredità culturale. Bisogna attingervi, rielaborarla, saper guardare il mondo con gli occhi degli artisti che hanno colto l’esistenza delle culture e delle cose, rendendo l’animo umano fruibile a tutti. L’opera d’arte, oggi come cinquecento anni fa, non può prescindere da un intimo senso di necessità».
Mentre dice così, con quel volto antico e la voce che scandisce piano le lettere, inclinata da un vago accento meridionale, sorride. «Ci vuole tempo per approcciarsi al giorno. Per rimettere in fila le cose. Il compito della pittura è sempre stato quello di emozionare, e così sempre sarà. L’opera d’arte non può prescindere da un’intima necessità dell’autore, né da una ricerca continua», sospira mostrandomi le sue ultime opere che raffigurano donne bellissime e fanciulli inermi. Inarrestabile, inizia ad accompagnarmi nella sua storia. Mette insieme frammenti di vita lontanissima come i ricordi della madre maestra e del padre commerciante di stoffe, l’infanzia negli anni Trenta con i quattro fratelli, i nuovi obiettivi. La sua prossima mostra, a Sperlonga, si sarebbe dovuta inaugurare ad agosto ma è stata rimandata per la pandemia.
«È tutto pronto», mormora mentre si allunga verso un pacchetto di Muratti blu; prende la quarta, forse quinta sigaretta dall’inizio del nostro incontro. Ne fuma un pacchetto al giorno, da più di quarant’anni, e non ci pensa proprio a smettere. «Prima di andare, voglio farle vedere una cosa», aggiunge. Mi accompagna davanti a una grande porta, la apre. Uno sterminato terrazzo si mostra davanti a noi, piante grasse e ficus, piccolo paradiso inaspettato. «Ormai esco poco, ma così vivo le atmosfere della giornata: la luce, da qui, cambia ogni momento. Nonostante i miei anni mi sento ancora giovane, perché continuo a cercare l’equilibrio tra forma e contenuto. Non smetto di inseguire l’armonia».