Nessuno sa come si chiami, dove abiti o quale sarà il suo destino ma l’ultimo essere umano nato sul nostro pianeta ha portato la popolazione mondiale a superare gli 8 miliardi di persone. Potrebbe essere venuto alla luce il 15 novembre 2022, non a caso ribattezzato il “Day of 8 Billion” dalle Nazioni Unite, una giornata celebrata a livello globale per riflettere sul futuro del nostro mondo.
Dal 1974, in soli 48 anni, la popolazione mondiale è infatti raddoppiata, passando da quattro a otto miliardi. A stupire però è il ritmo di tale crescita: secondo le stime Onu il numero degli esseri umani ha raggiunto per la prima volta le dieci cifre soltanto nel 1804. Un dato raddoppiato nel 1927 quando, dopo 123 anni, gli abitanti della Terra arrivarono a due miliardi. Ce ne vollero però soltanto 33 per crescere di un altro miliardo, arrivando a tre nel 1960, e appena 14 per raggiungere i quattro. Da allora ne bastarono prima 13 (1987), poi 12 (1999 e 2011) e ora appena 11 per aumentare ogni volta la popolazione globale di un altro miliardo di persone. Tale incremento testimonia i risultati conseguiti in termini di riduzione della povertà e della disuguaglianza di genere, e di progresso nella ricerca scientifica che, decennio dopo decennio, hanno allungato la durata e accresciuto la qualità della vita. Ma non vale per tutti.
«La rapida crescita della popolazione rende più difficile sradicare la povertà, combattere la fame e la malnutrizione e aumentare la copertura dei sistemi sanitari e di istruzione», ha testimoniato il sottosegretario generale dell’Onu per gli Affari economici e sociali, Liu Zhenmin.
Secondo la Fao, già nel 2020 oltre 3 miliardi di persone non potevano permettersi una dieta sana, 112 milioni in più rispetto al 2019, un aumento dovuto anche alla crescita dei prezzi alimentari. Dopo aver raggiunto il record degli ultimi 25 anni nel marzo scorso a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, a ottobre l’indice dei prezzi alimentari mondiali si è stabilizzato, attestandosi comunque su valori doppi rispetto ai primi anni 2000 e superiori del 30 per cento alla media dell’ultimo decennio. La prima sfida, secondo le Nazioni Unite, sarà sfamare una popolazione in crescita, che continua a invecchiare. Se infatti nel 2021 la pandemia di Covid ha ridotto a 71 anni l’aspettativa media di vita a livello globale (in calo dai 72,9 del 2019), nel 2050 si prevede che la riduzione della mortalità si traduca in una longevità media mondiale di circa 77,2 anni.
Allora gli ultra-sessantacinquenni saranno più del doppio dei minori di 12 anni. Non solo: i cambiamenti climatici uniti alla crescita della popolazione mondiale alimenteranno le migrazioni, soprattutto interne, dalle campagne verso le città. Nei prossimi 30 anni, nasceranno almeno 14 nuove megalopoli, ciascuna con una popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti, che andranno ad aggiungersi alle 33 già esistenti. Secondo un recente rapporto dell’Institute for Economics & Peace, questo non causerà solo nuovi problemi di insediamento e inquinamento ma aumenterà i rischi di insicurezza alimentare e idrica e accrescerà i tassi di criminalità e conflittualità sociale. Soprattutto in Africa subsahariana e Asia meridionale, guarda caso le due aree a maggiore crescita demografica del pianeta.
La distribuzione della popolazione mondiale infatti non è uniforme. A fare la parte del leone è l’Asia: su 8 miliardi di abitanti della Terra, oltre 1,45 risiedono in Cina e 1,41 in India. La terza regione più popolosa al mondo invece sono gli Usa, con “solo” 335 milioni di abitanti, seguiti da Indonesia, Pakistan, Nigeria e Brasile, tutti sopra la soglia dei 200 milioni. La “vecchia” Europa, Russia inclusa, conta 750 milioni di persone, più del doppio degli Usa, ma se un secolo fa gli abitanti europei erano quasi un terzo del totale globale oggi non superano il 10 per cento, e il dato è in discesa un po’ ovunque. Tra i primi 20 Paesi del mondo per calo della popolazione, secondo l’Onu, solo due non sono nel Vecchio continente e l’Italia non fa eccezione. A causa della diminuzione delle nascite, secondo l’Istat, passeremo dai 59,2 milioni di cittadini del 2021 ai 47,7 del 2070, perdendo per questo il 32 per cento del Pil.
Tanto che, guardando a queste cifre, c’è chi addirittura ribalta il problema, come il patron di Tesla e neo-proprietario di Twitter, Elon Musk. A fine agosto, il miliardario ha denunciato che «il crollo della popolazione dovuto ai bassi tassi di natalità è un rischio molto più grande per la civiltà rispetto al riscaldamento globale». Ma perché? È vero che la popolazione mondiale sta crescendo al ritmo più lento dal 1950, un dato sceso al di sotto dell’1 per cento nel 2020. Tuttavia, le proiezioni Onu prevedono un ulteriore incremento degli abitanti della Terra, fino a 8,5 miliardi entro il 2030; 9,7 miliardi nel 2050 e 10,4 miliardi entro il 2080.
Secondo le stime, le uniche regioni del mondo che registreranno un calo demografico complessivo tra il 2022 e il 2050 sono l’Asia orientale e sudorientale. Nello stesso periodo invece la popolazione dell’Africa subsahariana raddoppierà da quasi 1,2 a poco meno di 2,1 miliardi, mentre il numero di abitanti dell’India crescerà di oltre 250 milioni, superando stabilmente la Cina come Paese più popoloso del mondo. Di cosa si preoccupa allora Elon Musk?
La risposta può arrivare forse dal cuore del neo-liberismo statunitense, che a quanto pare non considera affatto un problema la sovrappopolazione, anzi. In un editoriale sul Wall Street Journal, William McGurn, ex ghost writer di George W. Bush, ha spiegato perché «dovremmo alzarci in piedi e festeggiare» il superamento della soglia degli 8 miliardi di esseri umani.
La sua tesi si basa su “Superabundance”, un nuovo libro pubblicato a fine agosto negli Usa da due docenti universitari, Gale L. Pooley e Marian L. Tupy ed edito dal Cato Institute, centro studi di riferimento della destra americana. «A tante generazioni è stato insegnato che la crescita demografica rende le risorse più scarse», è la tesi dell’opera. «Dopo aver analizzato i prezzi di centinaia di materie prime, beni e servizi nell’arco di due secoli, gli autori hanno scoperto che le risorse diventavano più abbondanti man mano che la popolazione cresceva».
Almeno in termini monetari. Come spiegato da McGurn, «se nel 1850 un operaio doveva lavorare 2 ore e 50 minuti per comprare una libbra (circa 453 grammi, ndr) di zucchero, oggi gli bastano solo 35 secondi». I prezzi dunque, sul lungo periodo, dovrebbero calare rendendo più accessibile un maggior numero di risorse.
L’argomentazione di Pooley e Tupy si basa sul concetto di “sovrabbondanza”, enunciato negli anni Ottanta dall’economista americano Julian Simon. L’idea è che una risorsa fisica tradizionalmente considerata fonte di ricchezza (ad esempio, il petrolio) non sia preziosa di per sé ma solo per l’uso che gli esseri umani decidono di farne. Dunque, sostengono Pooley e Tupy, una più ampia popolazione significa non solo una maggiore produzione economica, ma più menti per escogitare nuove soluzioni per i problemi del mondo.
Ma seppure tutti gli abitanti del pianeta riuscissero a permettersi un’auto, a cosa servirebbe se il prezzo è un clima invivibile? A tale obiezione, secondo cui la capacità produttiva capitalistica sta accelerando l’autodistruzione dell’umanità, gli autori rispondono con un innato ottimismo, sottolineando come decennio dopo decennio siamo riusciti non solo a produrre di più ma in modi più intelligenti, utilizzando meno risorse e danneggiando sempre meno l’ambiente. Uomini e donne, sostengono, sono più che bocche: sono menti. Tutto dipende però da come ragionano.
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