Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, fa un’analisi ruvida: o si interra il pattume o lo si termovalorizza. Tertium non datur. Ma perché sono ancora così forti le contrapposizioni, tanto da far cadere governi e maggioranze? Ne abbiamo parlato con Davide Tabarelli, presidente e fondatore di Nomisma Energia, società leader nella ricerca su ambiente e problematiche dell’energia.
Tabarelli, termovalorizzatore di Roma: sì o no?
«Sì, senza dubbio».
Perché sì?
«Perché in tutto il mondo il ciclo dei rifiuti si conclude con il recupero energetico. Non ci sono alternative. Tutte le civiltà progredite termovalorizzano. Abbiamo impianti di questo genere in tutto il mondo progredito. In Italia è pieno, sono ovunque nella pianura padana. Che sia proprio la capitale d’Italia a esserne sprovvista è imbarazzante».
Chi si oppone sostiene che la soluzione c’è, ed è differenziare i rifiuti.
«La sperimentazione della rivoluzione ambientalista e il concetto “rifiuti zero” si sono dimostrati, alla prova dei fatti, un sogno. O, più propriamente, un fallimento. Anche nelle esperienze più virtuose, la quota di differenziato può arrivare massimo al 70/75%, ma non sono infrequenti le esperienze in cui non si va oltre il 25%. Cioè rimangono tre quarti di pattume indifferenziato. Che si fa?».
Tutti gli ambientalisti hanno torto, allora?
«No, esistono anche ambientalisti illuminati che hanno opinioni in sintonia con la legge, con la Commissione europea, con il buon senso. E tutte le istituzioni dicono che dai rifiuti dobbiamo recuperare energia. Punto. La materia non si può mica riciclare all’infinito… Mi pare folle che, dopo decenni di dibattiti, ancora si discuta».
Cosa c’è dietro?
«Una proterva ostilità al consumismo. Si tratta di una posizione politica comprensibile, ma bisogna chiamare le cose con il loro nome. Chi si oppone al termovalorizzatore lo fa nella convinzione della doverosità di ostacolare tutto quello che è il sistema industrializzato a base capitalistica. Non sono contro il termovalorizzatore, ma contro il consumismo. Lo dicano».
Quindi alla base della contrarietà c’è solo una posizione retriva e non informata?
«Esattamente. L’alternativa alla produzione di energia dal rifiuto è continuare a riempire buche, con le discariche, o fare come si fa a Roma: lasciare il pattume per strada e allevare generazioni di gabbiani grandi come aquile, di topi giganti e blatte grasse come vacche».
O mandare i rifiuti in altri impianti…
«Ma, mi perdoni, se si mandano i rifiuti di Roma agli inceneritori del Nord, della pianura padana, l’impatto ambientale in termini di trasporto, è enorme. Altro che ecologismo! I camion che vanno su è giù per lo Stivale e trasportano l’immondizia consumano un litro di gasolio per fare tre chilometri. Se li portassero a Bologna, che è una delle sedi più vicine, farebbero quattrocento chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Un’enormità. Se poi si mandano i rifiuti all’estero, peggio mi sento».
Ma i rifiuti sono inquinanti anche prima del loro incenerimento.
«Certo. Pensi che al termovalorizzatore di Torino misurano la qualità dell’aria prima della termovalorizzazione e dopo. L’aria che esce dopo il processo termico è molto più pulita di quando non lo fosse all’ingresso».
Si tratta di un’energia pulita? Lo si può dire?
«Circa la metà di quello che si brucia è rappresentato da frazione organica. Cioè si tratta di Bioenergia. Cioè il 50% dell’energia prodotta è rinnovabile. La Germania, per fare un esempio dei nostri vicini più avanzati, è un grande produttore di energie rinnovabili. Una fetta intorno al 5% di tutta l’energia rinnovabile che i tedeschi producono è bioenergia da rifiuti».
E in Italia?
«Noi siamo molto indietro. Penso alla Sicilia, che è più o meno grande come un Paese del Nord Europa per popolazione, perché ha circa 5 milioni di abitanti, e che non ha alcun termovalorizzatore. E si continua a buttare in discarica. Poi c’è la nostra capitale. Ecco, penso che siano tutti gli italiani, non solo i romani, a doversi scandalizzare. Basterebbe pensare all’evoluzione rappresentata dall’esperienza di Napoli, con il termovalorizzatore di Acerra. La tragedia e la sofferenza legate all’immaginario della mondezza a Napoli è stata risolta. Non se ne parla più. A Napoli va tutto meglio, la città è migliorata tantissimo».
Chi è il responsabile dei ritardi italiani?
«La scarsa conoscenza, l’ignoranza. E la colpa è anche nostra, di noi supposti esperti che dovremmo essere più bravi a far capire che il termovalorizzatore è l’unica via possibile».
Ma che il termovalorizzatore di Copenaghen, che è in centro città, produca solo vapore acqueo ed emissioni zero, è una leggenda?
«Gli impianti al centro non sono solo a Copenaghen, ma al centro di Vienna, o al centro di Berlino. Sono macchinari che fanno teleriscaldamento bruciando rifiuti. Non è che i nostri amici danesi, austriaci e tedeschi siano dei masochisti o dei cretini».
Ma che bisogno c’è di farlo proprio in centro città?
«Il trasporto del calore deve essere fatto il più vicino possibile alle case che lo utilizzano. Più ci si allontana dal fruitore finale, più si abbatte la temperatura. Si chiama effetto entropico dell’energia. L’esperienza italiana è un po’ diversa. Si tende ad allontanarsi dalle città, ma questo impedisce il teleriscaldamento e favorisce la produzione di energia elettrica. Ma a Roma sarebbe vitale farlo in centro. In Giappone, o negli Stati Uniti si fa così.
E inquinamento zero?
«No, siamo onesti. Non è vero che non esce niente, perché esiste, ovviamente, una combustione. Ma si utilizzano delle tecnologie avanzate, dei superfiltri. Comunque qualche scarto si produce, è chiaro. Ma rispetto all’energia prodotta e sostituita in migliaia di caldaie negli appartamenti serviti dal teleriscaldamento si tratta d’una frazione infinitesimale dei particolati che avrebbero emesso quelle caldaie! Più l’impianto è grande, tra l’altro, più si riesce a montare grandi filtri, con grandi capacità».
In Italia cosa producono, allora, i termovalorizzatori?
«Soprattutto energia elettrica. Si produce calore ad altissima temperatura per scaldare il vapore che fa girare la turbina che, a sua volta, produce elettricità. Quando si è lontani dai centri abitati è difficile fare riscaldamento perché si perde troppa energia con la distanza. Avviene a Bologna, a Parma, a Modena, ad Acerra. Tutti impianti che sono stati progettati distanti dai centri urbani e che, per questo non fanno teleriscaldamento o ne fanno molto poco. Poi ce ne sono altri cresciuti vicino al centro, come Torino, Milano e quello bellissimo di Brescia».
Perché bellissimo?
«Quello di Brescia è stato per anni il nostro fiore all’occhiello, e lo è ancora. Un gioiello, che tratta mezzo milione di tonnellate di rifiuti ogni anno e riesce a produrre acqua calda per il teleriscaldamento, oltre ad energia elettrica, servendo l’80% delle case dei bresciani. Se vi sembra poco…».