Al bar, ore 8:30 del mattino. Qualcuno ordina un caffè e un cornetto (o brioche, che dir si voglia) ma dal bancone nessuno risponde. Uno scenario da incubo per un’Italia abituata al rito mattutino della tazzina e della pausa da lavoro e la colpa è tutta dei cambiamenti climatici. Questa visione apocalittica, ammettiamolo, è fin troppo pessimistica ma non si discosta di molto dallo scenario che attende l’umanità in conseguenza del riscaldamento terrestre: l’aumento delle temperature globali avrà effetti rilevanti su colture come grano, caffè e cacao che rivestono un’elevata importanza socioeconomica e culturale. Per non parlare della carne.
I modelli climatici mostrano come, per il resto del secolo, la produzione agricola globale diminuirà progressivamente ogni dieci anni a causa della siccità, del caldo e delle alluvioni. Non solo: l’approvvigionamento idrico è a serio rischio in varie zone del mondo e settori come l’allevamento del bestiame che consumano enormi quantità di acqua saranno sempre meno sostenibili. Al contempo, entro la metà del secolo, la popolazione planetaria dovrebbe crescere di un altro 30 per cento dopo aver già toccato gli 8 miliardi di persone. Tutto questo avrà un costo, che non risparmierà le nostre tavole (e le nostre tasche). Ma esistono diverse soluzioni.
Nel 2020, durante i primi lockdown per frenare la pandemia, in molti si sono dedicati alla cucina al punto che in varie zone d’Italia e non solo, prodotti come farina e lievito andavano a ruba nei supermercati. Ma il Covid non sarà l’unico punto di svolta per le nostre abitudini alimentari. «Per me, torta di compleanno significa un bel dolce al cioccolato con molta glassa e tanti granelli arcobaleno», spiega la giornalista statunitense Caroline Saunders nel suo podcast The Sustainable Baker. “Pochi altri cibi do per scontati, ma se la crisi climatica dovesse cambiarla?”. L’ex caporedattrice del portale ambientalista Grist ha così pubblicato una ricetta della “Torta del disastro climatico”, in cui ha sostituito cacao e farina di grano tenero con polvere di carruba e grano saraceno e rinunciato del tutto a caffè e vaniglia. A ragion veduta.
Un nuovo studio scientifico, apparso lo scorso mese sulla rivista PLOS One, prevede infatti che entro il 2050 le aree tipiche per la coltivazione del caffè subiranno cambiamenti significativi anche in caso di «riscaldamento moderato» del pianeta. A questo vanno aggiunte le conclusioni di un’altra ricerca, pubblicata nell’autunno scorso su Plants, People, Planet, secondo cui tutte le otto varietà selvatiche della vaniglia sono a rischio estinzione a causa dei cambiamenti climatici. Soltanto il Brasile, il principale produttore mondiale della varietà arabica, potrebbe perdere fin quasi l’80 per cento dei suoi migliori terreni coltivati a caffè, anche in caso di un lieve aumento delle temperature. È pur vero che, secondo i ricercatori, l’area ottimale di coltivazione potrebbe spostarsi più a sud o più a nord delle zone attuali ma nulla assicura il mantenimento dei livelli produttivi odierni, con conseguenze sui prezzi e sulla disponibilità dei prodotti. Insomma, alla cassa del bar un caffè potrebbe costare molto più di oggi.
Il problema non è limitato alle colture più particolari ma coinvolge persino i cereali. Secondo uno studio internazionale pubblicato nel 2017 sulla rivista scientifica PNAS, la resa del grano potrebbe diminuire fino al 6 per cento per ogni grado Celsius in più di aumento delle temperature globali. Un dato impressionante considerando che l’anno scorso è stato il quinto più caldo mai registrato, con un incremento di 0,28 gradi Celsius rispetto alla media dei trent’anni precedenti, e che a livello mondiale questa coltura costituisce il 20 per cento delle calorie e delle proteine che gli esseri umani consumano. In mancanza di un’inversione di tendenza, sul lungo periodo la situazione non pare sostenibile.
Così si affacciano sul mercato una serie di nuove e vecchie alternative. Come la maggior parte delle colture, il grano tenero, che rappresenta il 95 per cento di questo cereale coltivato a livello mondiale, richiede ogni anno cicli di semina e raccolto che, per l’uso di ingenti quantità di fertilizzanti, acqua ed energia, hanno un impatto importante sul suolo e sull’inquinamento atmosferico.
Una delle soluzioni allo studio riguarda il ricorso a cereali perenni, specie seminate una sola volta e capaci di ricrescere anche dopo il raccolto. Tra questi figura il Kernza, un vero e proprio marchio registrato negli Usa dove è arrivato dall’Europa negli anni Trenta. Non si tratta di un ogm ma del risultato di decenni di studi del Land Institute del Kansas, che ne ha fatto una specie in grado di fornire fino al 30 per cento della resa del grano tenero a fronte di un consumo significativamente inferiore di risorse idriche ed energetiche. Particolare anche il caso del riso ibrido sviluppato in Cina, arrivato ormai alla terza generazione, e che promette una maggiore resa delle colture. Diversi studi hanno certificato come i raccolti di questo cereale diminuiscano in misura maggiore in condizioni climatiche estreme.
Altri Paesi però hanno optato per “vecchie” alternative. Come l’India, dove è allo studio il ritorno a coltivazioni tradizionali come il miglio e il sorgo, più resistenti ai cambiamenti climatici e meno “inquinanti”. Tutto questo però richiede anche uno sforzo da parte dei consumatori. Secondo un esperimento tentato dal Washington Post, il pane a base di farina di Kernza “sa di segale”.
I piatti decisamente più a rischio sono però quelli a base di carne visto che l’industria dell’allevamento resta tra le più inquinanti al mondo. Per la Fao, il settore occupa l’equivalente del 26 per cento delle terre emerse, ghiacciai compresi, e la superficie totale coltivata per sfamare il bestiame è pari al 33 per cento dei terreni arabili. Parliamo del 70 per cento dei campi agricoli del mondo, quasi un terzo del pianeta. Eppure si continua a disboscare per far spazio agli allevamenti: tornando in Brasile, stando a uno studio dell’organizzazione Stand.earth, il principale esportatore locale di carne Jbs sarebbe collegato alla deforestazione di almeno 1,7 milioni di ettari di terreni in Amazzonia. Secondo la no-profit Animal Equality, le attività agricole sono responsabili del 24 per cento delle emissioni di gas serra ogni anno, di cui l’80 per cento sono connesse al settore zootecnico. Inoltre, quella dell’allevamento è l’industria che richiede il maggior quantitativo di risorse idriche. Nel 2015 il New York Times ha fatto i conti: per produrre un uovo sono necessari 200 litri di acqua; per un chilo di pollo 4mila litri e per uno di manzo 15mila.
Il tutto mentre, secondo l’Onu, oltre 2 miliardi di persone vivono in Paesi «sottoposti a un forte stress idrico» e quasi due terzi della popolazione globale deve affrontare gravi carenze d’acqua per almeno un mese all’anno. Il futuro allora potrebbe essere legato alla cosiddetta “agricoltura cellulare”, in cui la carne viene “coltivata” in impianti di produzione biotecnologici. Campioni di cellule animali sono imbottiti di nutrienti fino a moltiplicarsi al punto da realizzare un vero e proprio pezzo di carne. Sembra fantascienza ma è già realtà: a dicembre scorso Singapore ha autorizzato la vendita di prodotti a base di pollo coltivato dalla società statunitense Eat Just. Adottando questi metodi innovativi, la città stato intende aumentare del 30 per cento la propria produzione alimentare entro il 2030. Chissà che prima o poi non tocchi anche a noi. Continua a leggere il settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui
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