Dieci ettari di terra per la realizzazione di un impianto di termovalorizzazione da 600mila tonnellate di rifiuti l’anno, acquistati al prezzo di 7,5 milioni di euro per un progetto che si stima costerà in tutto 700 milioni: sono alcune delle cifre sul termovalorizzatore di Roma che spaventano ambientalisti e associazioni. Tra queste il Wwf e Legambiente, che a fine febbraio hanno annunciato di aver presentato ricorso al Tar del Lazio contro il progetto, impugnando le ordinanze di approvazione del Piano di Gestione dei rifiuti di Roma Capitale e di realizzazione dell’impianto predisposte dal commissario straordinario per il Giubileo e sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Le due maggiori associazioni ambientaliste italiane contestano l’intenzione di stravolgere le impostazioni del Piano Regionale dei rifiuti «puntando su inverosimili effetti “salvifici” di un costoso impianto, che finirebbe invece per paralizzare il miglioramento della raccolta differenziata, in palese violazione con gli obiettivi ambientali fissati a livello europeo». «Inaccettabile aver scelto di imporre questo intervento attraverso un commissariamento per il Giubileo del 2025, sia perché è impossibile che l’impianto sia pronto per il 2025, sia perché così facendo si è voluta cancellare qualsiasi fase di confronto e partecipazione, nonostante si sia intervenuti pesantemente su un tema oggetto di una recente pianificazione regionale», hanno dichiarato Wwf e Legambiente. Proprio la concessione di poteri straordinari al sindaco Gualtieri per la gestione in autonomia del ciclo di rifiuti di Roma con l’inserimento di una norma all’interno del Decreto Aiuti è stato il “casus belli” che ha scatenato l’astensione in Aula del M5S contribuendo alla caduta del governo Draghi a luglio del 2022. La gestione dei rifiuti è infatti appannaggio del piano regionale, che durante la campagna elettorale l’allora candidato in Campidoglio ed ex ministro dell’Economia aveva dichiarato di non voler stravolgere. Il piano regionale non prevedeva termovalorizzatori.
Il cambio di prospettiva del sindaco è uno dei punti contestati dai comitati locali che a partire da ottobre del 2022 – quando l’acquisto dei dieci ettari di terra nella zona urbanistica di Santa Palomba da parte dell’azienda Ama è stato completato – hanno iniziato a dare battaglia al progetto. «Contrasta in maniera lampante con gli obiettivi di neutralità climatica ed economia circolare, è ambientalmente immorale», dichiara a TPI Alessandro Lepidini, ex assessore all’ambiente del Municipio in cui sorgerà il termovalorizzatore, che si è dimesso dalla carica perché in contrasto con la giunta capitolina sul piano. Oggi è portavoce del comitato “No inceneritore a Santa Palomba”. «Il Municipio Roma Eur è quello con la più alta percentuale di raccolta differenziata, pari agli obiettivi previsti per il 2025. Siamo tra il 68 e il 69 per cento. E invece proprio nel Municipio più virtuoso si decide di portare tutti i rifiuti di Roma per bruciarli, in contrasto con i principi europei che prediligono il riuso della materia», continua Lepidini, ricordando che il progetto non ha potuto usufruire dei fondi del Pnrr perché le uniche tecnologie che la comunità europea finanzia sono quelle relative alla raccolta differenziata e al recupero dei materiali. Il timore condiviso da tecnici e associazioni è che la costruzione dell’inceneritore porti la comunità locale ad abbandonare e non incentivare questa pratica, in un comune che registra una percentuale di raccolta differenziata piuttosto bassa, pari al 43,8 per cento secondo i dati Ispra del 2020, dieci punti al di sotto della media Ue. Gli esperti che si oppongono al piano sottolineano invece come il riciclo e il riuso dei rifiuti con apposite tecnologie (per esempio quella per il compostaggio dell’organico) siano la via maestra da seguire per risolvere il problema senza produrre nuovo inquinamento e polveri sottili climalteranti, anche in una città da oltre due milioni di abitanti come Roma.
«L’inceneritore non è un male di per sé, il problema è che esistono alternative relative alla raccolta di minore impatto ambientale, che possono trattare fino al 90 per cento di rifiuti del territorio», commenta a TPI Raphael Rossi, tecnico in materia di rifiuti e testimone di giustizia, che ha curato la progettazione di sistemi avanzati di gestione di rifiuti a Trento, Bari, Roma, Napoli e Torino e che oggi è amministratore unico di Aamps, l’azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti e dell’igiene del territorio a Livorno, dove il termovalorizzatore costruito nel 1974 sta per essere dismesso. «La città di Livorno ha superato il 65 per cento di raccolta differenziata, e quindi ha cominciato a interrogarsi se era il caso di portare i rifiuti da cinque province, nel contesto di un impianto che ha in programma di essere spento e in un comune così virtuoso dal punto di vista delle abitudini dei cittadini», spiega. Uno dei principali problemi legati a questo tipo di opere è che si tratta di investimenti di lunghissimo termine, che vincolano i territori a produrre rifiuti nel tempo per cui l’impianto è progettato, per un numero importante di decenni. «Quello di Parma è costato 200 milioni di euro, quello di Torino più di 450, per rientrare è necessario farli funzionare per decine di anni. In questo senso vincolano il territorio a produrre i rifiuti che il piano finanziario promette. Per questo la comunità europea oggi predilige il riuso e la valorizzazione di materiali, perché grossi investimenti nella materia, seppur utili, hanno frenato lo sviluppo di pratiche e tecnologie alternative», chiarisce il tecnico. L’inceneritore di Roma, spiega ancora Rossi, pone poi un problema in termini di inquinamento, perché questo tipo di impianti implica la produzione di «circa 300 chili di ceneri e 25 di polveri per ogni tonnellata di rifiuto che brucia». «Queste ceneri e queste polveri sono rifiuti particolari, sono pericolose come quelle del camino e devono essere trattate con grande attenzione perché possono essere inquinanti. E anche se c’è un sistema di abbattimento, questo a sua volta consuma acqua», aggiunge Rossi. Anche il “Coordinamento contro l’inceneritore di Albano”, che sta partecipando alle iniziative di protesta sulla base dell’esperienza maturata nel 2008 – quando si è opposto alla costruzione di un inceneritore ad Albano – sottolinea come uno dei problemi legati alla realizzazione del termovalorizzatore sia il consumo di acqua. «Un impianto simile potrebbe utilizzare intorno agli 800mila metri cubi annui. Dove si pescherà l’acqua, in una zona dove già da circa 30 anni soffriamo di cronica diminuzione di disponibilità idrica, con le falde che si abbassano di qualche metro ogni anno?», si chiede Aldo Garofalo, uno dei portavoce del coordinamento.
«Non pongo una critica assoluta all’impianto – continua Raphael Rossi – ma in termini relativi. Se si pensa a territori come Milano, che raggiunge il 55 per cento di differenziata, o al Veneto, dove questa è al 75, va bene pensare di incenerire i rifiuti residui. Il problema è credere di farlo per tutti i rifiuti di un’intera città, che non può porsi come unico obiettivo quello di costruire un mega impianto. Il rischio è che si sviluppi una pratica in cui invece di differenziare i rifiuti, li bruciamo e basta», conclude. La costruzione del termovalorizzatore è vista come una soluzione “semplice” a un problema complesso, che richiederebbe alternative combinate e di più ampio respiro dal punto di vista tecnologico e ambientale, in un’epoca in cui gli orientamenti della comunità scientifica suggeriscono un cambio totale di paradigma e di mentalità sulla produzione di rifiuti e sull’impatto che l’uomo e il suo sistema economico e produttivo generano sulla natura. «Siamo noi gli attori del cambiamento climatico», dice a TPI Gianfranco Bologna, presidente onorario della Comunità scientifica del Wwf Italia e tra i coordinatori nazionali dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis). «In Italia la componente del cosiddetto termovalorizzatore, che poi è un inceneritore, ha un numero minore rispetto ad altri trattamenti di rifiuti. L’idea di far sì che una città come Roma, che purtroppo ha ancora una percentuale di raccolta differenziata molto bassa e che dovrebbe migliorare da questo punto di vista, punti su un impianto che viaggia sulle 600mila tonnellate l’anno, depotenzia il lavoro che deve fare il cittadino. Deve essere lui il protagonista di tutta quell’attenzione al rifiuto, una delle cose più drammatiche che la rivoluzione industriale e tecnologica hanno prodotto. Si pensa a fare grandi opere senza porsi il problema del loro impatto, mentre la logica della sostenibilità suggerisce che bisognerebbe fare di più con meno, con prodotti che dovrebbero essere programmati non per la loro pronta obsolescenza, ma per essere riutilizzati».