L’estate appena finita ha svelato con ferocia inedita agli occhi del mondo quanto drammatico può essere (e sarà) l’impatto dei cambiamenti climatici. Dal Canada al Mediterraneo, dalla Cina alla Nuova Zelanda, dall’Iran alla Nigeria, temperature record, incendi e alluvioni hanno interessato zone assai lontane tra loro e riempito pagine di cronache dando rilievo nuovo agli allarmi che gli scienziati lanciano da decenni.
Tra essi, Luca Mercalli, climatologo e presidente della SMI, Società Meteorologica Italiana, è tra le voci più autorevoli della comunità scientifica in ambito climatico. Infaticabile divulgatore, Mercalli è anche ricorrente nell’azione legale chiamata evocativamente “Giudizio Universale”, promossa da oltre 200 tra cittadini, minori e associazioni contro lo Stato Italiano, accusato di non agire a sufficienza per fermare il riscaldamento globale.
Sempre più la parola “record” viene associata alle misurazioni climatiche, e non è affatto una buona notizia. Cosa sta accadendo?
Nell’ottobre 1971 mi avviavo verso la porta della scuola per iniziare la prima elementare. Indossavo un capottino. Mezzo secolo dopo a Milano di gradi ce ne sono 25 e siamo in maniche corte, una condizione anomala per l’autunno padano. In cinquant’anni è cambiato il mondo. È cambiato il clima; il settembre di quest’anno è nella top ten tra i settembre più caldi degli ultimi 220 anni.
Anche se sono un addetto ai lavori, i quasi 50°C registrati quest’estate a Lytton, in Canada, che è alla stessa latitudine di Bruxelles, mi hanno impressionato. Immaginavo che certe temperature potessero raggiungersi in alcuni decenni. Invece, sono già qui. Anche i 48,8°C registrati a Siracusa (la temperatura più alta d’Europa) ci indicano che questo è solo l’inizio.
Gli strumenti internazionali come l’Accordo di Parigi stanno funzionando?
A Parigi nel 2015 si è deciso di contenere l’aumento di temperatura a fine secolo al di sotto dei 2°C, il che è possibile ma solo con un rapidissimo processo di decarbonizzazione, altrimenti gli scenari a fine secolo saranno di +4-5°C. Una ipotesi letteralmente catastrofica.
Gli impegni attuali di riduzioni assunti dagli Stati sono ampiamente insufficienti a centrare l’obiettivo. E se non lo centriamo, gli impatti sulle società umane e sulla biosfera saranno enormi. La biosfera però si adatterà, perderà pezzi importanti di biodiversità, si estingueranno delle specie, ma troverà il modo di riorganizzarsi. La cattiva notizia è che una delle specie che si estingueranno potrebbe essere la nostra. Il momento attuale è cruciale. Ogni ritardo ha un costo. Trent’anni di rinvii accumulati fin qui per mettere su un’azione globale ambiziosa ci costeranno già circa 2°C di temperatura e 40-50 cm di livello dei mari in più. Altri dieci anni di ritardo ci porteranno sulla traiettoria irreversibile della catastrofe, con mari più alti di 1,20 metri e vaste zone del pianeta inadatte alla vita.
Quali sono le soluzioni da adottare per scongiurare questo rischio?
Ci sono molte soluzioni in campo che parlano il linguaggio della green economy. Più energie rinnovabili, più efficienza energetica, più mobilità elettrica. E ancora, rivedere i modelli di consumo: meno viaggi in aereo, meno carne in tavola, meno consumismo, addio all’usa e getta. Tutte misure giuste, che aiutano ma che da sole non bastano.
La vera soluzione, l’unica, è l’uscita dal dogma economico della crescita infinita. Dovremmo ripetere come un mantra “non può esistere crescita infinita in un mondo di risorse limitate”.
Questo paradosso dannosissimo è noto dal 1972, dal rapporto The Limits to growth ingiustamente ritenuto un’eresia. Se l’avessimo ascoltato allora avremmo imboccato una strada diversa.
Eppure ancora oggi la parola d’ordine di tutti, da Draghi, a Von Der Leyen, a Biden è “più crescita”. Ci sono diverse proposte, che non sono arrivate a maturità ma da cui si può partire per immaginare un altro modello, dall’Economia di Stato Stazionario di Herman Daly, all’Economia della Ciambella di Kate Raworth, al Modello di prosperità senza crescita di Tim Jackson fino alla decrescita di Latouche. Il problema è anche didattico; nelle facoltà di economia non c’è spazio per un pensiero di critica rispetto alla crescita. Se pensiamo di risolvere il problema senza mettere in discussione questo dogma siamo fuori strada.
Le giovani generazioni sono quelle più a rischio, Non a caso stanno avendo un ruolo importante nel mobilitare l’opinione pubblica. Il “diritto al futuro” è oggi uno degli elementi centrali del movimento per la giustizia climatica. Quale messaggio è importante dare ai giovani?
Oggi c’è Greta, ma nel 1992 un’altra Greta ante litteram, Severn Cullis-Suzuki, aveva zittito il Summit Onu di Rio dal quale si sarebbe usciti con la Convenzione Quadro sui Cambiamenti climatici. Il messaggio era lo stesso. Ed è rimasto inascoltato.
Ai giovani attivisti di oggi dico: dovete impegnarvi in politica. Dovete entrare nei parlamenti, conquistare spazio nei luoghi elettivi. Occupate i partiti, se non siete contenti di quelli esistenti fondatene uno nuovo. Sarà un cammino più lungo, ma ne vale la pena. Io di sicuro vi voterò.
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