L’allarme lanciato da Rainforest: “Le foreste d’Africa sono a rischio”
La seconda foresta più grande del mondo dopo l’Amazzonia, quella del Bacino del Congo, rischia di scomparire, provocando danni irreversibili per il Pianeta.
L’International Energy Agency (Iea) ha dichiarato che per limitare il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali e arrivare a emissioni nette zero entro il 2050, non deve avvenire un’ulteriore espansione dei combustibili fossili. Eppure, da quando la Russia ha invaso l’Ucraina e la crisi energetica ha preso piede, da più parti è stata rilanciata l’idea di un re-investimento proprio sugli idrocarburi, arretrando rispetto agli obiettivi fissati nel corso della Cop26. A farlo, nel corso della conferenza sul clima di quest’anno, appena terminata, è stata proprio l’Unione africana, nella speranza di migliorare le proprie economie e far fronte al boom demografico. In barba al cambiamento climatico in corso.
La minaccia di un aumento di estrazione di gas e petrolio interessa in particolar modo il territorio dell’Africa centrale, dove il fenomeno si sta sviluppando a un ritmo allarmante. Il più delle volte contro la volontà delle comunità locali che soffrono maggiormente dei costi intrinseci di inquinamento, corruzione, violazione dei diritti umani e deforestazione che accompagnano questo tipo di sviluppo estrattivo.
Secondo il recente rapporto pubblicato da Rainforest Foundation Uk ed Earth Insight, infatti, l’area di terra interessata dall’estrazione di petrolio e gas in Africa è destinata a quadruplicarsi, devastando così un terzo delle fitte foreste tropicali presenti nel Bacino del Congo e velocizzando il collasso climatico. Secondo le mappature contenute nel rapporto di Rainforest, il 10 per cento del continente africano è già coperto da giacimenti petroliferi e di gas. Un dato già alto, che potrebbe arrivare fino al 38 per cento qualora le proposte di nuovi progetti di estrazione sul territorio venissero approvate dai governi locali.
Il Polmone verde d’Africa a rischio
Con un’estensione di circa duecento milioni di ettari, un’area grande circa un quarto degli Stati Uniti, le foreste tropicali e le zone pluviali del Bacino del Congo sono vitali per le popolazioni locali, la fauna selvatica e la futura stabilità climatica del pianeta. Le attività estrattive di combustibili fossi, dunque, non minaccia solo il futuro delle foreste, ma anche e soprattutto quello di chi le abita e del resto del mondo.
L’estrazione di petrolio e gas va spesso di pari passi con la deforestazione e comporta un altissimo prezzo in termini di inquinamento tossico, che ha un impatto sulla salute e sui mezzi di sussistenza delle comunità locali e delle popolazioni indigene. Oltre il 30 per cento degli attuali giacimenti di combustibili fossili in Africa si trova nelle foreste tropicali – circa 74 milioni di ettari su 240 milioni totali – il 90 per cento dei quali si estende proprio nel Bacino del Congo. Nella regione rimangono oltre 180 milioni di ettari di fitte foreste tropicali e più del 35 per cento di queste, ovvero 64 milioni di ettari, un’area grande quasi due volte la Germania, si sovrappone a più di 150 giacimenti di petrolio e gas.
Tre blocchi petroliferi presenti sul territorio, stando a quanto riporta Rainforest, si sovrappongono inoltre alle torbiere della Cuvette Centrale, un bacino di carbonio vitale a livello globale in grado di immagazzinare 30 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero tre anni di emissioni globali di combustibili fossili a livello mondiale. La torba di questi tre blocchi petroliferi, da sola, immagazzina 1,67 miliardi di tonnellate di carbonio – equivalenti al carbonio emesso dalla combustione di 14,2 miliardi di barili di petrolio, secondo quanto rilevato da team di ricercatori del progetto CongoPeat.
Nella Repubblica del Congo, diversi blocchi petroliferi presenti su queste torbiere sono già stati assegnati, anche alle major Total ed Eni.
Il Bacino del Congo si estende lungo sei Paesi: Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale e Gabon.
Si tratta, dunque, di un paesaggio altamente diversificato, che ospita migliaia di specie di piante, uccelli tropicali e animali selvatici in via di estinzione, molti dei quali inseriti nella Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iunc). Nelle foreste, inoltre, vivono 35 milioni di persone, tra cui centinaia di migliaia di indigeni, i quali conducono una vita semi-nomade, le popolazioni più povere ed emarginate del pianeta: non hanno accesso ai servizi statali di base, non hanno sicurezza energetica e risentono già degli impatti del cambiamento climatico.
Secondo i dati raccolti da Rainforest, nei Paesi del Bacino del Congo vi sono oltre 81mila centri abitati tra città e villaggi, 16mila dei quali (il 20 per cento del totale) sono sovrapposti ai giacimenti di petrolio e gas.
Il precedente in Nigeria
Per comprendere l’impatto che potrebbe avere un incremento delle attività estrattive nel Bacino del Congo sulla salute della popolazione e il benessere del territorio stesso è utile ricordare quanto accaduto nel corso di cinquant’anni in Nigeria.
La Nigeria meridionale, patria del Delta del Niger è oggi uno dei luoghi più inquinati del pianeta. Infatti, secondo la Commissione petrolifera e ambientale dello Stato di Bayelsa, nell’ultimo mezzo secolo sono stati sversati nel Paese ben dieci milioni di barili di petrolio. Ciò equivale a una fuoriuscita di dimensioni simili alla catastrofe della Exxon Valdez – che ha devastato le coste dell’Alaska – ogni singolo anno negli ultimi cinquant’anni. La salute di centinaia di migliaia di persone è stata colpita dalla contaminazione dell’acqua che bevono, della terra su cui coltivano il cibo e dell’aria che respirano. Secondo le stime della Commissione, a causa dell’alto tasso di inquinamento potrebbero morire ogni anno 16mila bambini.
L’inquinamento petrolifero diffuso a Bayelsa è stato devastante. Diverse ricerche hanno rilevato che le persone che vivono vicino ai siti inquinati sono state continuamente esposte a livelli elevati di metalli pesanti come cromo, piombo e mercurio nel flusso sanguigno, con conseguente aumento del rischio di malattie che vanno dall’Alzheimer e Parkinson al cancro, diabete e danni ai reni.
Con quasi il 75 per cento della popolazione locale che dipende dalla pesca e dall’agricoltura, la Commissione si è imbattuta in casi in cui individui e comunità hanno perso i loro mezzi di sostentamento e, in alcuni casi, sono stati ridotti alla miseria a causa delle fuoriuscite di petrolio, sottolineando il fatto che la presenza di idrocarburi non è un beneficio per le comunità locali, ma piuttosto una minaccia continua alla loro salute e alla loro stessa esistenza.
Una storia molto simile a quella della Repubblica democratica del Congo, che copre il 60 per cento del Bacino del Congo, consolidando il ruolo decisionale del Paese come centrale per il destino della regione.
Come riportato da Human Rights Watch, la produzione nell’unico blocco petrolifero attivo della Repubblica democratica del Congo, sulla costa atlantica del Paese, è stata fonte di continui impatti sanitari e ambientali. Nell’ultimo decennio, infatti, una commissione del Senato congolese ha accusato il governo di “irresponsabilità” per non aver affrontato la questione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, causato dalle operazioni petrolifere e le relative perdite, la combustione di gas e la contaminazione in relazione all’esplorazione e conseguente estrazione di idrocarburi.
Blocchi di esplorazione all’asta
Fino al mese di luglio di quest’anno, nella Repubblica democratica del Congo erano attivi 16 blocchi di esplorazione petrolifera, per una produzione complessiva di circa 25mila barili al giorno. Ma al governo non bastava, nonostante le richieste avanzate dalla comunità internazionale di lasciare i giacimenti sottoterra per non accelerare ulteriormente il cambiamento climatico.
È in quello stesso mese che, allettato dall’aumento di richiesta di petrolio e gas da parte delle grandi potenze mondiali, il ministro degli Idrocarburi Didier Budimbu ha annunciato la messa all’asta di altri undici blocchi di esplorazione. Poco tempo dopo, grazie a un’indagine delle Ong locali, si è scoperto che in modo del tutto illegale il numero dei blocchi messo all’asta era salito a trenta, mettendo a rischio altri 11 milioni di ettari di foresta, un’area grandi quasi quanto l’Inghilterra.
Nonostante il ministro Budimbu abbia ripetutamente affermato nel corso degli ultimi mesi che il petrolio e il gas possono essere sfruttati senza impatti ambientali negativi, la messa all’asta dei nuovi blocchi è in contraddizione con diverse leggi di protezione ambientale del Paese, come a esempio quelle che proibiscono lo sviluppo di combustibili fossili nelle aree protette.
Budimbu sembra anche aver ignorato i requisiti chiave della legge ambientale in vigore nel Paese dal 2011, che non solo prevede di effettuare specifiche valutazioni sull’impatto ambientale e sociale, ma di condurre delle consultazioni pubbliche per informare gli abitanti dei luoghi interessati. Le missioni sul campo condotte da Greenpeace Africa in decine di comunità locali potenzialmente interessate, alla vigilia dell’asta, hanno rilevato che neppure un membro della comunità era stato consultato in merito ai piani dell’asta petrolifera e che la maggior parte di essi era, peraltro, assolutamente contraria.
Le persone che dipendono maggiormente dalla salute degli ecosistemi per il loro sostentamento e che sarebbero più colpite dalla presenza di petrolio sulle loro terre siano all’oscuro dei piani del governo. Secondo quanto riporta Rainforest, si stima che più di un milione di congolesi nella zona delle aste petrolifere potrebbero essere direttamente colpiti da un significativo inquinamento da petrolio, così come i centri abitati a valle, tra cui Kinshasa.
La balla dello sviluppo grazie al petrolio
Gli investimenti crescenti nel settore petrolifero in Africa vengono spesso spacciati come una soluzione alle esigenze di sviluppo. Tuttavia, la realtà è che la maggior parte di questa ricchezza finisce nelle mani dei colossi dei combustibili fossili, banche e altri soggetti interessati ad arricchirsi con gli idrocarburi.
Il governo congolese continua a mentire ai suoi cittadini, sottolineando come i Paesi del Nord del mondo si siano arricchiti grazie allo sviluppo dei combustibili fossili, giustificando la sua volontà di espandere le proprie attività nel settore degli idrocarburi, con l’unico scopo di trarre profitto dall’impennata dei prezzi dell’energia alimentata dalla guerra in Ucraina. Grazie a questa narrazione distorta, il governo si assolve dall’incapacità di tenere il controllo su tutte le altre risorse di cui il Paese dispone e dalle quali potrebbe trarre ingenti guadagni senza devastare una delle aree naturali più grandi e importanti del Pianeta.
Al pari del Gabon, infatti, la Repubblica democratica del Congo produce l’80 per cento di tutto il legname prodotto nel continente africano. Tuttavia, l’esportazione verso altri Paesi come Cina, Stati Uniti e Russia viene gestita da gruppi terroristici e milizie locali in maniera illegale. Secondo un rapporto del 2019 dell’ong ambientalista britannica Environmental Investigation Agency (Eia) il legname proveniente dalla foresta pluviale tropicale del Congo viene venduto in Occidente come ecosostenibile, mentre costa la vita a un’area vitale per il Paese da cui proviene.
Produttori mondiali di cobalto e coltan
La Repubblica democratica del Congo è poi fra i primi produttori mondiali anche di due metalli che la tecnologia sta rendendo indispensabili per le nuove produzioni: il cobalto e il coltan. Del primo, il Congo produce oltre il 60 per cento di quello in circolazione nel mondo dove è sempre più ricercato per l’impiego nella costruzione di telefonini e batterie di auto elettriche.
Il coltan invece è il minerale da cui si ottiene il tantalio, un metallo raro, anch’esso diventato di recente molto ambito dai produttori di smartphone. Il coltan è inoltre indispensabile per ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione e nei prodotti legati ai semiconduttori. Entrambe rappresenterebbero delle fonti di introiti incredibili per il Paese, ma anche in questo caso il governo è stato fatto fuori dalle bande criminali che hanno dato vita a una vera e propria lotta tra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori congolesi di estrazione.
Un elevato numero di bambini-minatori, inoltre, è costretto a estrarre in condizioni disumane e dannose per la salute il cobalto utilizzato almeno da una trentina più noti marchi tecnologici e automobilistici, come denunciò Amnesty International nel 2015 e 2017.
Oltre alla lotta interna, nel Paese si sono insediate diverse società cinesi interessate alle risorse congolesi. Nel 2007, la Cina ha firmato un accordo per diritti di estrazione di 10 milioni di tonnellate di rame e 600 mila tonnellate di cobalto nell’arco di 25 anni, per un valore complessivo tra i 40 e gli 84 miliardi di dollari. Oggi, il 50 per cento della produzione di cobalto della Repubblica Democratica del Congo è in mano a società cinesi.
Un ulteriore fonte di preoccupazione per il governo della Repubblica democratica del Congo è infine lo stato di insicurezza di oleodotti e gasdotti, in particolare nella parte orientale del Paese, dove non solo sono stati esposti a incessanti attacchi, ma sono anche rimasti potenziali obiettivi di sabotaggio socioeconomico e fonti di degrado ambientale.
Le fonti di ricchezza alternative agli idrocarburi ci sono, dunque, ma il governo non è in grado di controllarle. E che l’aumento di estrazione di petrolio e gas rischi di compromettere per sempre l’ultimo Polmone verde del mondo poco importa.
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