È greenbickering, ovvero dibattito green, il nuovo fenomeno con il quale aziende, opinione pubblica, amministratori e soprattutto giudici e tribunali, dovranno prendere sempre più confidenza.
“Si tratta di quella pratica – spiega Rita Santaniello avvocato dello studio multinazionale Rödl & Partner – per la quale un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale laddove ritenga utilizzi impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare il suo percepito verso il mercato ed i consumatori e quindi per vendere di più.”
Sono sempre maggiori e incontrollati, infatti, i casi di cosiddetto greenwashing ovvero quella comunicazione ingannevole incentrata sul rispetto dell’ambiente che è solo di facciata, che fa apparire un prodotto o il brand medesimo più ’verde’ di quanto sia in realtà; addirittura il 60% delle imprese sarebbe caduto almeno una volta in comunicazioni ad impronta green non valide o ingannevoli (dati Nielsen). Inoltre, un’indagine condotta dalla Commissione europea, dalle autorità nazionali di tutela dei consumatori insieme ad altre autorità internazionali, ha evidenziato come nel 42% dei casi le autorità hanno ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green, e quindi messo in atto pratiche commerciali sleali. In oltre il 50% dei casi, le aziende non abbiano dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità; nel 37% il claim conteneva formulazioni generiche, come ‘rispettoso dell’ambiente’, o ‘eco’ e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato. Nel complesso
“In conseguenza di questo tra l’altro – sottolinea l’avvocato Santaniello di Rödl & Partner – proprio recentemente il Parlamento europeo ha approvato la propria posizione negoziale sulla proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde e contro il fenomeno del greenwashing. Il progetto legislativo prevede di vietare l’uso di diciture green generiche come ad esempio ‘a impatto zero’, naturale, biodegradabile, amico della natura, ecologico se non debitamente comprovate, inserendole, unitamente ad altre, in un elenco di pratiche commerciali da considerarsi in ogni caso scorrette e quindi illecite.”
“Ovvero – conclude Rita Santaniello avvocato dello studio Rödl & Partner – io azienda posso intentare causa per concorrenza sleale verso uno o più miei competitori che utilizzino marchi, slogan o diciture green non comprovate per vendere di più, quindi sottraendo mercato agli altri, o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo rispetto agli altri”.