Le pale eoliche possono aspettare. Anche i pannelli fotovoltaici. Apparecchi ancora più moderni come gli elettrolizzatori di idrogeno, poi, scordateveli proprio. Nel mondo nuovo del dopo-guerra in Ucraina si andrà avanti ancora per un bel po’ con il vecchio e sporco carbone. E pazienza se gli scienziati dell’Ipcc, il mega-team dell’Onu sui cambiamenti climatici, ci hanno già chiaramente avvertito che il tempo per salvare il Pianeta è scaduto e che, di questo passo, fra ottant’anni città costiere come Venezia scompariranno sott’acqua. Le rinnovabili? Oggi no, domani forse, dopodomani si vedrà: prima la pandemia e poi il conflitto alla periferia est dell’Europa stanno complicando la marcia della rivoluzione green, riportando in auge i combustibili fossili proprio quando ci eravamo faticosamente abituati all’idea di doverli abbandonare per sempre.
Il processo di restaurazione è iniziato a partire dalla seconda metà del 2021, quando il progressivo allentamento delle restrizioni anti-Covid ha fatto aumentare la domanda globale di gas. Di contro, in quegli stessi mesi la Russia ha ridotto i propri rifornimenti all’Europa: secondo l’interpretazione di molti analisti, Putin voleva fare pressione politica sulla Germania per lo sblocco del gasdotto NordStream2. La combinazione di questi due fattori contrastanti ha fatto impennare i prezzi del gas: dai 18 euro per megawattora di inizio 2021 la quotazione a dicembre è arrivata a 140 euro. Con l’anno nuovo il Cremlino aveva riaperto i rubinetti e la curva dei prezzi era tornata a scendere. Ma in seguito all’invasione dell’Ucraina c’è stato un nuovo repentino rincaro, questa volta ancora più marcato dei precedenti: il 7 marzo il prezzo del gas in Europa ha raggiunto il picco mai visto di 227 euro per megawattora, oltre dieci volte il valore medio degli ultimi anni.
Questi spaventosi rialzi, combinati con la definitiva affermazione di Putin come nemico dell’Occidente, hanno indotto l’Unione europea a rivalutare la propria politica energetica. La Russia – da cui prendiamo il 45% del gas, il 27% del petrolio e il 46% del carbone – è il nostro principale fornitore e questo ci espone troppo alla variabilità degli umori del Cremlino. Il discorso vale in particolar modo per l’Italia, che fa affidamento sul gas per il 42% dei propri consumi energetici e che – complici sciagurati accordi siglati durante l’ultimo governo Berlusconi (e mantenuti dai successivi esecutivi) – compra ogni anno da Mosca circa 30 miliardi di metri cubi di gas (a fronte di un consumo totale di poco superiore ai 70 miliardi). «Dobbiamo renderci indipendenti dal gas russo», sentiamo dunque ripetere in queste settimane a ogni angolo di strada.
Ma trovare alternative in grado di compensare forniture così massicce non sarà facile. Ci vorrà tempo: almeno 30 mesi secondo il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, non meno di 5 anni per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Ed è qui che entra in gioco il tema della transizione green. Il gas, infatti, era stato individuato dai governi europei come la fonte transitoria su cui fare affidamento fino al passaggio completo alle rinnovabili, che per l’Agenzia internazionale dell’Energia (Iea) nel 2050 dovranno alimentare il 90% dell’economia globale. In questo scenario, il prezzo del gas che schizza alle stelle diventa un problema ancora più serio, perché rischia di compromettere non solo l’approvvigionamento energetico dei singoli Paesi ma anche le politiche di contrasto al surriscaldamento globale, e quindi – estremizzando ma non troppo – la sopravvivenza del Pianeta…
Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui