Passano solo pochi secondi dall’istante in cui si nota il distaccamento dello strato di neve e ghiaccio a monte a quello in cui si viene effettivamente travolti da una valanga: in caso di pendii particolarmente ripidi la velocità di caduta può sfiorare o addirittura superare i 100 chilometri orari, e da quel momento è come se partisse un timer dal quale dipende la vita di chi si ritrova ricoperto dalla coltre bianca. «Se si interviene entro 15 minuti, c’è il 97 per cento di possibilità di trovare le persone vive. Poi la curva precipita molto velocemente, dopo mezz’ora si scende al 20 per cento», spiega Umberto Biagiola, Presidente del Servizio Valanghe, struttura operativa del Club alpino italiano (Cai). Alle spalle ha 33 anni di volontariato nel Soccorso Alpino, un migliaio di interventi, quasi 500 ore passate in elicottero in cerca di scialpinisti più o meno esperti in difficoltà. «La consapevolezza di aver salvato qualcuno è la gioia più grande – aggiunge – ma quando vedi vite giovani spezzate ti piange il cuore».
Come quella di Will Cookson, 17enne neozelandese morto a inizio febbraio nel Tirolo insieme a un 32enne cinese e un 50enne tedesco segnalato come disperso nella valle di Kleinwalsertal. Gli incidenti in montagna che si sono verificati nel primo weekend di questo mese sono legati al distaccamento della neve: dieci persone sono morte in totale in Svizzera e nella parte occidentale dell’Austria. Pochi giorni dopo un 48enne uscito per un’escursione scialpinistica ha perso la vita travolto da una valanga che si è staccata da quota 2600 metri a Livigno, vicino Sondrio.
In Italia c’è un ente che si occupa di raccogliere dati relativi a questo fenomeno, è l’Associazione Interregionale Neve e Valanghe (Aineva). Negli ultimi 40 anni ha realizzato studi che evidenziano come il numero di vittime resti più o meno costante: tra i 35 e i 40 decessi annui. “Tantissimi” secondo Massimiliano Fazzini, coordinatore del “Rischio climatico” della Società italiana di Geologia Ambientale (Sigea) e climatologo dell’università di Camerino. A TPI Fazzini pone l’accento anche sul trend in crescita degli incidenti con persone travolte o ferite: «Questo perché la neve mediamente è meno stabile, e perché c’è maggiore frequentazione in montagna». L’aumento di sport invernali come scialpinismo e ciaspolate porta sempre più persone a salire in montagna e naturalmente espone più individui al pericolo valanghe. Ma le morti ad alta quota sono soltanto l’ultimo di una serie di eventi concatenati che portano all’epilogo tragico: a cominciare dai fenomeni atmosferici dovuti al cambiamento climatico, come l’aumento delle precipitazioni e delle temperature, i principali “motori” della neve in queste situazioni, passando per il mancato rispetto degli avvisi di pericolo diramati dalle autorità competenti, e infine la non osservanza delle norme di precauzione personale che chiunque voglia addentrarsi in montagna è tenuto a conoscere. Tragedie come quella sul ghiacciaio della Marmolada, che nel luglio scorso è costata la vita a 11 persone, o dell’Hotel Rigopiano, inghiottito nel gennaio 2017 in un incidente che causò 29 vittime, avrebbero potuto essere evitate. Anche perché esistono dei luoghi in cui è possibile aspettarsi un maggior pericolo di valanga, a seconda di come è strutturato il territorio su cui la neve si poggia. «Morfologicamente ci sono delle aree in cui c’è più possibilità che il fenomeno si verifichi», spiega Alessandro Novellino, geologo del British Geological Service (l’equivalente britannico dell’Ispra italiano, ndr). «Non possiamo dire ‘domani alle 15 ci sarà una valanga’, ma esistono i bollettini, che sono linee guida. E si basano sugli strumenti per il monitoraggio, che ci danno tanti dati, oltre che su modelli accuratissimi. Alcuni pendii hanno strumenti a terra in funzione 24 ore su 24. Ma molti di questi incidenti avvengono perché le persone ignorano gli avvisi».
Come difendersi
Gli uffici valanghe di Aineva, del Cai, dei professionisti del supporto in montagna come le guide alpine, gli accompagnatori di media montagna e le guide escursionistiche ambientali, hanno il compito di diffondere la conoscenza. «Solo con un’accurata formazione, l’adeguata attrezzatura e preparazione, la corretta informazione circa le condizioni degli itinerari e delle meteo-nivologiche si può frequentare la montagna con minori rischi, in ogni caso acquisendo in proprio l’esperienza necessaria o affidandosi ai professionisti», avverte Alessio Salandin, responsabile dell’Ufficio valanghe di Arpa Piemonte. Avere con sé l’attrezzatura di autosoccorso “non è comunque sufficiente”, spiega, perché «è necessario saperla usare: uno dei nostri consigli è quello di allenarsi costantemente nelle simulazioni di autosoccorso». Prima di addentrarsi ad alta quota è indispensabile dotarsi del kit “artva, pala, sonda”: il primo è un dispositivo elettronico che permette di individuare eventuali sepolti da valanga tramite un segnale radio acustico, poi si passa alla sonda, capace di individuare la posizione esatta e la profondità della persona sommersa dalla neve. La pala serve ovviamente a scavare, operazione che a mani nude – contrariamente a quanto si crede – risulta particolarmente difficile. È inoltre consigliabile uscire almeno in due, applicare la distanza di sicurezza così che in caso di slittamento almeno uno del gruppo abbia la possibilità di salvarsi e dare l’allarme: un esempio di comportamento prudente consiste ad esempio nell’attraversare uno alla volta un pendio pericoloso. Tra le proposte per una maggiore sicurezza anche quella di istituire un monitoraggio Gps diffuso, con centri di controllo che possano seguire in tempo reale il percorso degli alpinisti. E ancora, fondamentale la pianificazione a tavolino delle gite osservando il percorso sulle mappe, e la costante osservazione delle condizioni ambientali, con particolare attenzione al vento: se si notano ad esempio pennacchi di neve a monte, fermarsi e tornare indietro potrebbe essere una buona idea. «Quando andate in montagna fate girare l’occhio, la natura ci parla», insiste Biagiola.
Pur con tutte le precauzioni del caso, gli esperti concordano che «il rischio zero non esiste». Non a caso la Scala Europea del pericolo valanghe, adattata da tutti i servizi pubblici comunitari di previsione del fenomeno, si basa su valori che vanno da 1 – “Debole” – a 5 – “Molto Forte”. E anche chi frequenta con maggiore insistenza quei luoghi non è immune al pericolo: molto spesso si viene a sapere che tra le vittime di una valanga c’erano anche alpinisti navigati o persone che avevano dimestichezza ed esperienza con le camminate in quota. Sono loro quelli che fanno più fatica a resistere al richiamo della montagna, quelli che – una volta arrivati in cima – decidono di “provarci lo stesso” nonostante le condizioni non siano ottimali, forti delle proprie conoscenze. Torna utile ricordare il detto dello storico alpinista svizzero André Roch: «Esperto, stai attento, la valanga non sa che tu sei esperto».