Quando nel 2015 alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici 196 Paesi firmarono l’Accordo di Parigi, assunsero automaticamente un impegno per il clima legalmente vincolante. Da allora, tutto il mondo ha iniziato ad attuare misure per «limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali».
Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), l’organo di riferimento dell’Onu per quanto riguarda il cambiamento climatico, contenere il riscaldamento globale richiederà un calo del 43% delle emissioni di gas serra entro il 2030. Queste ultime derivano per quasi tre quarti dall’utilizzo di combustibili fossili per la produzione di elettricità e calore, oltre che per i trasporti. Ne deriva quindi che decarbonizzare la filiera dell’energia sia uno dei passi principali da compiere per rispettare gli Accordi di Parigi e scongiurare danni irreversibili per il pianeta.
L’Europa è piena di esempi virtuosi, su tutti la Svezia, il primo Paese a introdurre il “carbon pricing”, vale a dire l’associazione di un valore economico alla CO2 emessa, con la tassa sul carbonio più alta del mondo, arrivata a 122 euro per tonnellata nel 2023. Oggi, la maggior parte dell’energia del Paese proviene da nucleare, idroelettrico e biocarburanti, con una quota crescente di energia eolica e solare.
Ambizione alla quale punta anche l’Italia, nonostante dipenda ancora molto dalle vecchie fonti inquinanti (basti pensare al rigassificatore di Piombino, autorizzato e realizzato in tempi record, e a quello di Ravenna che verrà avviato nel 2024). Una completa transizione, però, è possibile entro il 2035. Lo afferma uno studio del think tank Ecco Climate, commissionato da Greenpeace, Legambiente e Wwf Italia, che individua le politiche, le tecnologie e le misure da sviluppare per rispettare questo target che il nostro Paese ha peraltro sottoscritto nel maggio scorso durante il G7.
Secondo i dati di Terna, nel 2021 l’energia rinnovabile ha coperto circa il 36 per cento del fabbisogno totale dell’Italia. La strada da fare appare quindi piuttosto lunga.
La strada verde
L’asticella segna i 250 GW di capacità installata rinnovabile, per quasi 400 terawattora di produzione nazionale: è la quantità di elettricità rinnovabile che l’Italia dovrà essere in grado di generare per raggiungere i suoi obiettivi. Ciò implica un aumento di 8 volte della capacità totale degli impianti rinnovabili, per un incremento di oltre 90 GW di rinnovabili rispetto alla capacità installata del 2021.
Altri punti del piano comprendono l’imposizione di un limite alla quantità di energia importata a 40 TWh l’anno, «per evitare che il sistema si basi in modo abnorme sulla decarbonizzazione fuori dall’Italia e sull’effettiva disponibilità dell’energia decarbonizzata in sistemi fuori dalla nostra giurisdizione».
E ancora, il raggiungimento di un livello di investimento in batterie non inferiore alle stime fatte dai gestori di rete europei, per poter accumulare quanto prodotto. «Oggi di fronte alla domanda “Cosa succede se non ci sono vento e sole?” la risposta più comune è ricorrere al gas, motivo per cui riempiamo gli stoccaggi, costruiamo nuovi pipeline e gasdotti», ammonisce Luca Iacoboni, responsabile della strategia per la decarbonizzazione di ECCO, parlando con TPI. «Ma il gas non ci serve davvero – spiega – e non perché le rinnovabili ci saranno per sempre.
Ma perché per raggiungere gli obiettivi è necessario un mix di tecnologie che ci permetteranno di fronteggiare le normali mancanze che arriveranno. Come batterie elettrochimiche e sistemi di pompaggio legati all’idroelettrico, insieme ad altre fonti di energia come le biomasse, o l’idrogeno verde». Un enorme contributo potrebbe arrivare dall’introduzione di un sistema di flessibilità della domanda di elettricità, «il grande assente dal dibattito».
«Ci sono dei modi per utilizzare l’energia in maniera più efficiente – aggiunge Iacoboni – ad esempio se carichi il tuo boiler per l’acqua calda per 60 minuti consecutivi, un’interruzione temporanea di tre minuti non darebbe alcun problema. Quindi se c’è un momento in cui il sistema ha bisogno di minore domanda per assistere sistemi che non si possono interrompere come ad esempio gli ospedali, una serie di utenze può diminuire i consumi senza che si abbassi la qualità del servizio». Questa “interrompibilità”, adottata in larga parte dalle grandi aziende, è molto retribuita dallo Stato.
Spesso le compagnie accettano di diminuire il consumo, e solo per questa possibilità vengono remunerate. «Da questo servizio vengono esclusi a priori cittadini e piccole e medie imprese – conclude Iacoboni – ma in realtà andrebbe collettivizzato. Porterebbe un beneficio economico alle persone, invece che riempire le tasche delle grandi aziende, e ci consentirebbe di spegnere le centrali a gas che attualmente gestiscono i picchi di domanda».
Una questione politica
Nel modello, il contributo del gas alla produzione elettrica scenderà a 54 TWh nel 2030, per essere poi azzerato nel 2035, mantenendo solamente degli impianti di generazione termici a idrogeno e biometano. Tra le premesse fondamentali dello scenario tratteggiato, Ecco include che non venga sviluppato nessun nuovo impianto di Ccs (“Carbon Capture & Storage”, cattura e stoccaggio della CO2), «tecnologia oggi con costi elevati e per di più con sinergie con il settore di petrolio e gas destinate a venir meno con il ridimensionamento di tale settore», si legge nel report.
In questo avrà un ruolo chiave anche la politica, che al momento non sembra orientata a voler spingere fino in fondo sulla transizione. A inizio giugno, il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ospite al festival di Green&Blue, ha azzardato la sua previsione: «L’obiettivo – ha detto – è quello di ribaltare il rapporto attuale sull’energia: oggi due terzi vengono dai combustibili fossili e uno dalle rinnovabili; nel 2030 dovrà essere il contrario, con il gas che ci accompagnerà fino al 2050». In nome della diversificazione, il Ministero non vorrebbe escludere nessuna fonte di energia. Lasciando quindi ancora ampi spazi di manovra al fossile.
Il vero riscontro si vedrà nell’aggiornamento del Pniec, il Piano nazionale integrato energia e clima che stabilisce gli obiettivi nazionali al 2030 sull’efficienza energetica, sulle fonti rinnovabili e sulla riduzione delle emissioni e che deve essere approvato definitivamente dall’Ue entro giugno 2024. Il dicastero retto da Pichetto Fratin ha trasmesso a Bruxelles l’ultima proposta di aggiornamento ad inizio luglio prevedendo «una quota del 40% di rinnovabili nei consumi finali lordi di energia che sale al 65% per i consumi solo elettrici. Il 37% di energia da rinnovabili per riscaldamento e raffrescamento, il 31% nei trasporti, 42% di idrogeno da rinnovabili per gli usi dell’industria».
«Se non sarà adeguatamente ambizioso – è la posizione di Ecco – si comprometterà l’obiettivo del 2035. Il nostro piano serve a spiegare al governo come arrivare preparato alla meta».
Leggi l'articolo originale su TPI.it