Nel 2022, in Italia si sono registrati 310 eventi climatici estremi che hanno causato 29 morti. Nell’ultima alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna, dove ancora si contano i danni, vi sono più di 30 mila sfollati e 14 vittime. Il nome di questi numeri è “crisi climatica” e chi si ostina a chiamarlo maltempo non fa che girare la testa dall’altra parte. C’è però una domanda alla quale non si risponde mai: chi dovrebbe sostenere il costo del danno causato da questi fenomeni? Il quesito è contenuto anche nel rapporto 2022 dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico che prova ad analizzare la questione. Chi deve pagare i danni? Gli individui, le famiglie, le aziende colpite, le generazioni future che non hanno colpa, o chi ha contribuito maggiormente al cambiamento climatico?
Ad oggi, in Italia come all’estero, a ristorare le popolazioni colpite da questo tipo di eventi sono gli Stati e le compagnie assicurative per quanto riguarda i propri assicurati. Negli anni, gli attivisti per il clima, le associazioni, o anche semplici gruppi di cittadini hanno fatto causa agli Stati, ma anche a grandi gruppi industriali per i danni arrecati al clima. In Italia è in corso la prima azione climatica contro lo Stato italiano promossa da Giudizio Universale che raccoglie circa 203 ricorrenti, tra cui 17 minori rappresentati dai genitori.
A raccogliere la domanda dell’Ipcc, recentemente, è stato uno studio pubblicato dalla rivista peer-reviewed One Earth dal titolo “Time to pay the piper, fossil fuel companies’ reparations for climate damages” curato da Marco Grasso dell’Università Milano Bicocca e Richard Heede del Climate Accountability Institute del Colorado che propone di allargare il perimetro dei responsabili che dovrebbero pagare per i danni causati dal cambiamento climatico. Basandosi sul Carbon Majors Database, che registra i dati sulle emissioni dei maggiori inquinatori di carbonio, lo studio quantifica i pagamenti annuali dovuti dalle 21 principali aziende di combustibili fossili dal 2025 al 2050 per compensare i danni attesi da fenomeni meteorologici estremi e altri cambiamenti climatici causati dalle loro emissioni operative e di prodotto dal 1988 al 2022.
Secondo un’indagine condotta tra 738 economisti del clima, il totale dei danni economici globali attesi dai cambiamenti climatici è stimato in 99mila miliardi di dollari tra il 2025 e il 2050. Il rinvio al 2025 per la stima è considerato come un “bonus” per consentire alle aziende di aumentare la propria capacità finanziaria per affrontare le riparazioni.
La ricerca stima a 69.600 miliardi di dollari nel periodo 2025-2050 i danni economici futuri dovuti alle emissioni dei combustibili fossili, attribuendo un terzo di questi costi climatici all’industria globale dei combustibili fossili, un terzo ai governi e un terzo ai consumatori. Le principali 21 compagnie prese in esame dai ricercatori sono responsabili del 35,9% delle emissioni dal 2025 al 2050. Secondo i calcoli in testa alla classifica del debito climatico da risarcire c’è la saudita Saudi Aramco, con il 4,78% delle emissioni e 42,7 miliardi di dollari da restituire ogni anno, dal 2025 al 2050 per un totale di 1.110 miliardi di dollari.
Al secondo posto per emissioni (4,49%) c’è la russa Gazprom, con 20,1 miliardi di risarcimenti l’anno e debito un totale 522 miliardi di dollari. Al terzo posto (2,60% delle emissioni) c’è la compagnia iraniana National Iranian Oil, a seguire ExxonMobil Usa (2,60% delle emissioni) con 18,4 miliardi di risarcimenti l’anno, PetroChina con 1,62% delle emissioni e un conto da pagare pari a 7,2 miliardi l’anno. Per un totale di 5.444 miliardi da restituire alla comunità per i danni delle proprie attività, ma per quanto possa sembrare una cifra monstre, i ricercatori fanno notare che l’industria globale del petrolio e del gas ha accumulato profitto senza sforzo per circa 2,8 miliardi al giorno dal 1970.
La logica è quella di sfruttare i pagamenti di riparazione annuale più elevati a partire dal 2025 e quindi in calo, verso zero nel 2050, in modo che ci sia abbastanza finanziamenti nei primi anni per erogare i pagamenti alle vittime più colpite dei cambiamenti climatici; investire in mitigazione e adattamento e riconoscere che diverse compagnie di petrolio, gas e carbone falliranno, come conseguenza di attività bloccate o altri impedimenti a pagare le riparazioni entro la metà del secolo.
Per questo comprendere queste aziende tra i responsabili del cambiamento climatico aumenterebbe il senso di responsabilità di queste ultime nello sforzo globale di contrasto. Il loro ruolo nella governance climatica, insieme a quello degli stati, degli emettitori e di altri agenti, dovrebbe essere allineato con gli obiettivi degli scienziati impegnati ad analizzare il fenomeno. Il pagamento delle riparazioni rappresenterebbe, secondo lo studio, un incentivo ad aiutare a risolvere i guasti del mercato, come la ridotta competitività delle energie rinnovabili rispetto ai combustibili fossili fortemente sovvenzionati, aumentare i costi dei prodotti delle aziende e limitare l’espansione della loro attività inquinanti. In sostanza, il pagamento delle riparazioni e l’identificazione delle compagnie petrolifere come uno dei responsabili del cambiamento climatico potrebbe indurre le stesse a invertire la rotta, adottando pratiche commerciali sostenibili e al rimborso delle parti danneggiate dai cambiamenti climatici.
Una distribuzione più equa dell’onere della lotta ai cambiamenti climatici tra i vari agenti responsabili, fornirebbe allo stesso tempo finanziamenti necessari per mitigare le emissioni, l’adattamento del fondo e compensare i soggetti più vulnerabili ai danni climatici come i migranti climatici e i rifugiati, popoli indigeni, comunità di minoranze razziali ed etniche, persone con disabilità, persone che sono socialmente ed economicamente svantaggiate e chi rimane colpito dagli eventi climatici estremi.
In conclusione, aver calcolato le riparazioni dovute dalle compagnie petrolifere dei paesi maggiormente sviluppate, esentando quelle dei paesi più svantaggiati, finisce con il puntare il dito verso un certo tipo di sviluppo economico che ha visto i paesi più ricchi consumare le risorse ai danni dei paesi più poveri. Ma ora che i danni e gli effetti del cambiamento climatico sono diventati tangibili anche nei paesi più ricchi, gli studiosi autori della ricerca, sembrano dire che è ora di spalmare il costo del danno su tutti gli agenti. «Anche se vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti», direbbe De Andrè di fronte a quello che sta accadendo anche in questi giorni.
Leggi l'articolo originale su TPI.it