Più di 20 milioni di persone, spiega l’Unhcr, sono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni a causa di eventi climatici estremi, come l’innalzamento del livello del mare, siccità prolungate e gravi inondazioni, a seguito del degrado ambientale. C’è però un forte squilibrio tra chi è storicamente responsabile del cambiamento climatico, vale a dire i grandi Paesi industrializzati come Stati Uniti ed Europa, e chi subisce i danni provocati da questa crisi, cioè le nazioni più vulnerabili.
Per questo motivo da anni si parla dell’ipotesi di risarcire gli Stati più poveri del mondo per le perdite causate dai cambiamenti climatici. I dati scientifici, d’altronde, parlano chiaro.
Il primo passo
Dal 1751 (cioè dalla rivoluzione industriale) al 2017 gli Stati Uniti, da soli, hanno riversato nell’atmosfera 399 miliardi di tonnellate di CO2, seguiti da Unione europea e Regno Unito a quota 353 miliardi. Al terzo posto c’è la Cina con 200 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il 12,7 per cento del totale: il suo status però è ibrido, perché formalmente risulta come Paese emergente, pur essendo ormai la seconda economia globale per Pil. Al contrario, l’intero continente africano raggiunge appena il 3 per cento delle emissioni storiche globali.
Sono proprio le aree povere del pianeta a pagare il prezzo della crisi climatica. Dal 1991 in poi il numero di disastri ambientali che colpiscono annualmente le zone fragili del mondo è più che raddoppiato, causando 676 mila morti. Se si considerano non solo i decessi, ma in generale le persone colpite, si arriva a 189 milioni di persone ogni anno.
Un altro dato rappresenta plasticamente la sproporzione in atto. Secondo uno studio pubblicato su Nature Sustainability, negli ultimi 30 anni l’1 per cento più ricco della popolazione mondiale è stato responsabile da solo del 23 per cento di tutte le emissioni globali, mentre il 50 per cento più povero del 16 per cento.
Un passo in avanti storico si è avuto con la Cop 27 di un anno fa a Sharm el-Sheikh, quando venne annunciato il Fondo “Loss & Damage” (Perdite e Danni). Per la prima volta viene creato uno strumento internazionale finalizzato esclusivamente a fornire finanziamenti per la ricostruzione, la riabilitazione e il reinsediamento dopo eventi meteorologici estremi o lenti cambiamenti climatici.
Il tema sarà al centro della Cop 28 che si aprirà il prossimo 30 novembre a Dubai. D’altronde la situazione è seria e non più procrastinabile. Se anche la comunità internazionale riuscisse a tagliare le emissioni di gas serra in misura compatibile con un aumento della temperatura media globale di 1,5 gradi, i danni sarebbero solo ridotti, ma non azzerati.
Tra i fenomeni che possono provocare perdite e danni, infatti, ci sono sia gli eventi estremi come uragani, cicloni o prolungata siccità, ma anche cambiamenti che si svolgono su un arco di tempo più lungo, come la desertificazione e il ritiro dei ghiacciai.
A far scattare l’allarme e attivare il processo che ha portato all’idea del fondo “Loss & Damage” alcuni eventi catastrofici come le alluvioni in Pakistan dell’autunno 2022, che causarono 1.500 morti e danni stimati in 40 miliardi di dollari, coinvolgendo 33 milioni di persone. Il tutto in un Paese che storicamente è responsabile dello 0,28 per cento delle emissioni di anidride carbonica.
Dopo questo drammatico caso, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, affermò che «gli inquinatori devono pagare» per i crescenti danni causati, esortando i vari Stati a «tassare gli extra-profitti delle aziende produttrici di combustibili fossili e a re-indirizzare i proventi verso le nazioni vulnerabili che subiscono perdite sempre più gravi a causa della crisi climatica e le persone che lottano contro l’aumento dei prezzi di cibo ed energia».
Precedenti deludenti
Ma già da qualche anno i Paesi più poveri avevano capito che le cose così non potevano andare avanti, perché erano i primi a rimetterci senza ottenere adeguato sostegno. Nel 2017 un uragano con raffiche di vento fino a quasi 300 chilometri orari ha devastato l’isola di Barbuda, la cui principale fonte di guadagno è il turismo. È stato necessario ricostruire tutto, per un costo di circa 200 milioni di euro. Il primo ministro Gaston Browne si rivolse allora alla Banca Mondiale, ma si sentì rispondere che il suo Paese non era idoneo per un prestito a lungo termine e a basso interesse. Le condizioni proposte dall’istituto per ottenere i fondi erano inaccessibili.
Andando ancor più a ritroso nella storia che ha portato a questo accordo, la prima volta in cui si discusse della possibilità di istituire un meccanismo risarcitorio per i danni dei cambiamenti climatici è nel 1991. A proporlo alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) erano state le isole Vanuatu. L’anno seguente a Rio De Janeiro si stabilì il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, mettendo nero su bianco il fatto che tutti gli Stati hanno la responsabilità di affrontare la crisi ambientale, ma sono chiamati a contribuire in modo commisurato alle loro condizioni socioeconomiche e alle loro emissioni storiche.
Bisogna aspettare la Cop 13 di Bali, nel 2007, perché l’espressione “Loss & Damage” compaia per la prima volta in un documento formale dell’Unfccc. Poi nel 2010 viene istituito il deludente fondo verde per il clima con cui i Paesi industrializzati si impegnano ad aiutare quelli in via di sviluppo in materia di mitigazione e adattamento: ancora ad oggi non sono stati erogati tutti i finanziamenti promessi.
Anche i successivi step hanno prodotto risultati modesti, come la Cop19 del 2013, con cui si istituisce il Meccanismo internazionale di Varsavia per perdite e danni associati agli impatti dei cambiamenti climatici. Un accordo poi annacquato rispetto alla sua formulazione originaria, visto che non include alcun meccanismo finanziario.
Un principio molto chiaro, ma che si scontra con interessi divergenti, tanto da rimanere senza un nulla di fatto fino al Patto di Glasgow del 2021. Uno dei problemi sostanziali, visti tutti i precedenti, è che i Paesi emergenti si sono sentiti traditi, ricevendo solo le briciole, come nel caso della lotta al Covid per quanto riguarda i finanziamenti e i vaccini.
La vera svolta, come accennavamo, arriva lo scorso anno alla Cop 27 di Sharm el-Sheikh, con l’annuncio del “Fondo internazionale Loss & Damage”, il cui testo nelle prossime settimane approderà alla Cop 28 di Dubai e verrà sottoposto alle delegazioni di quasi 200 governi per l’approvazione finale.
Prima le politiche di contrasto si dividevano in due grandi categorie: mitigazione e adattamento. Con il primo termine si indicano quelle scelte volte a frenare il riscaldamento globale, diminuendo le emissioni di gas serra, come ad esempio l’installazione di pannelli solari o pale eoliche, le auto elettriche o in generale politiche mirate alla decarbonizzazione. Con adattamento si intendono invece quei processi che limitano i danni provocati dagli eventi metereologici estremi, per esempio colture resistenti alla siccità.
Il “Loss & Damage” introduce un nuovo pilastro nella lotta ai cambiamenti climatici, vale a dire la riparazione ai danni subiti o che si verificheranno in futuro a causa della crisi climatica, anche se, come vedremo, i dubbi e le criticità non mancano.
Dubbi e criticità
Ma entriamo nel dettaglio di ciò che prevede il Fondo che dovrà essere ratificato a Dubai. Ci sono volute diverse riunioni, alcune delle quali piuttosto tese, per arrivare all’elaborazione del sistema “Loss & Damage”. L’annuncio è arrivato nella notte del 4 novembre di quest’anno dopo un incontro di due giorni portato avanti da un comitato delle Nazioni Unite composto da 24 membri: «Abbiamo trovato una quadra». Durante la Cop 28 di fine mese verranno comunicati i Paesi più vulnerabili alla crisi climatica e che avranno diritto a ottenere i soldi del fondo. Per essere operativo nel 2024, dovrà essere ratificato dalle parti dell’Unfccc.
Il “Loss & Damage” sarà amministrato inizialmente dalla Banca Mondiale e attingerà da varie fonti di finanziamento, compresi i grandi Paesi in via di sviluppo, gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Regno Unito. Un accordo frutto di diversi compromessi, con le nazioni più ricche che nel corso del negoziato hanno imposto alcuni paletti, con i quali si rischia di depotenziare gli effetti di questo strumento.
Innanzitutto non è stato fissato un obiettivo preciso su quanto denaro verrà distribuito dal fondo. Nel testo approvato non è prevista una cifra minima né un importo complessivo, non ci sono termini che obbligano i Paesi più sviluppati a contribuire e non vengono menzionate in modo esplicito né le responsabilità storiche delle nazioni né la centralità dei diritti umani.
Insomma, il rischio concreto è quello di un Fondo senza fondo, che cambi poco l’approccio coloniale da sempre utilizzato dalle aree più benestanti del mondo nei confronti di quelle più fragili.
Il “Loss & Damage” si baserà sui contributi volontari dei Paesi ricchi, i quali saranno «esortati» a contribuirvi sotto forma di sovvenzioni. Altri Stati sono invece «invitati» a farlo. I Paesi in via di sviluppo avrebbero voluto un obbligo.
L’altro grande tema che ha provocato tensioni è il coinvolgimento della Banca Mondiale, che ospiterà il fondo per perdite e danni, come proposto da Stati Uniti, Unione europea e altri Paesi sviluppati. Una scelta che non convince le nazioni più povere, le quali consideravano più adatto un organismo indipendente. Tra le principali criticità evidenziate da chi si oppone alla scelta della Banca Mondiale c’è il suo modello di business, che si basa sulla concessione di prestiti, mentre i Paesi più vulnerabili hanno bisogno di finanziamenti a fondo perduto. Inoltre i vertici dell’istituzione sono nominati dagli Stati Uniti, e questo potrebbe comportare commissioni elevate per i Paesi beneficiari.
Alla fine si è concordato che la World Bank ospiterà la struttura “Loss & Damage” come Fondo di intermediazione finanziaria (Fif) per un periodo transitorio di quattro anni, fino a quando non sarà costituito come entità autonoma.
I conti non tornano
Manca poi una stima dei danni. Un report stilato da 55 nazioni vulnerabili li quantifica in 525 miliardi di dollari negli ultimi due decenni. C’è dunque poca chiarezza su chi dovrà pagare e come. La proposta dei Paesi più poveri, oltre a questo fondo, è un sistema di tassazione per le emissioni di anidride carbonica, i viaggi aerei, il carburante delle navi, l’estrazione di combustibili fossili e in generale per le transazioni finanziarie. Mia Mottley, prima ministra di Barbados, alla Cop 27 aveva chiesto di mettere le compagnie petrolifere di fronte alle proprie responsabilità: «Com’è possibile che le aziende che hanno registrato profitti per 200 miliardi di dollari nell’arco degli ultimi tre mesi non si aspettino di contribuire a un fondo per perdite e danni almeno con 10 centesimi per ogni dollaro di profitto?».
Insomma, un accordo di compromesso che delude i Paesi in via di sviluppo e gli attivisti, secondo i quali non sarà sufficiente a garantire gli investimenti necessari. «Il mondo non ha bisogno di un conto bancario vuoto, ma di un fondo operativo che possa davvero fare la differenza», ha dichiarato il presidente della Cop 28, il sultano Al Jaber.
Ma i motivi di discussione sono molteplici. I grandi produttori di petrolio e gas come gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita dovrebbero diventare donatori del fondo, eppure al momento sono esentati perché sono ancora classificati come Paesi in via di sviluppo, in base alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 1992. Così come la Cina, il più grande emettitore di CO2 al mondo.
Per tutte queste ragioni, molti addetti ai lavori non celano la propria delusione. L’attivista Harjeet Singh, responsabile della strategia politica globale dell’organizzazione no-profit Climate Action Network International, ha dichiarato: «I Paesi ricchi voltano le spalle alle comunità vulnerabili: non solo hanno costretto i Paesi in via di sviluppo ad accettare la Banca Mondiale come organismo ospitante del Fondo per le perdite e i danni, ma hanno anche eluso il loro dovere di guidare la fornitura di assistenza finanziaria a quelle comunità». In attesa di vedere come andrà la Cop di Dubai, la sensazione è che la strada da compiere sia ancora lunga.
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