Nel settembre 2022, il Parlamento Europeo ha votato una dura risoluzione contro Eacop, l’East African Crude Oil Pipeline, un oleodotto lungo 1.445 chilometri che attraversa l’Uganda e la Tanzania e che avrà un costo totale di 10 miliardi di dollari. Il prezzo reale dell’infrastruttura, tuttavia, potrebbe essere ben più alto considerando le violazioni dei diritti umani e i rischi ambientali che la sua costruzione comporta. Le attività estrattive avranno infatti un impatto negativo sulle comunità locali, esposte al rischio di dover lasciare i propri territori senza adeguate compensazioni, dopo aver subito peraltro intimidazioni e vessazioni, e metteranno a rischio riserve e habitat naturali, compromettendone la biodiversità.
Sono stati questi gli elementi che hanno indotto le istituzioni europee a condannare il progetto, dietro cui ci sono il colosso petrolifero TotalEnergies e la China National Offshore Oil Corporation (Cnooc). Motivazioni che hanno innescato anche una serie di dure proteste in tutto il mondo e dato vita alla campagna globale #StopEacop, con manifestazioni in tante capitali occidentali tra cui Londra, Amsterdam e New York. A dispetto della decisa opposizione, tuttavia, i governi di Uganda e Tanzania all’inizio del 2023 hanno approvato la costruzione dell’infrastruttura. Ma ci sono degli attori fondamentali che, davanti ai rischi reputazionali e legali, si stanno sfilando dal progetto: le banche. Sono infatti 24 quelle che hanno negato il loro sostegno finanziario anche se alcune, come la britannica Standard Chartered, continuano ostinatamente a ritenere gestibili i rischi connessi all’Eacop.
Ma il diniego di alcune banche nel caso appena descritto rappresenta purtroppo un’eccezione e sembra dettato più da ragioni opportunistiche che da una reale consapevolezza dei disastrosi impatti che il sostegno finanziario al settore fossile comporta. E infatti, a dispetto delle eloquenti raccomandazioni della comunità scientifica, le banche continuano ad alimentare la crisi climatica, foraggiando abbondantemente le società che sfruttano petrolio, carbone e gas, le fonti maggiormente responsabili di emissioni nocive. A dimostrarlo, i dati contenuti nel report Banking on Climate Chaos, curato da una serie di organizzazioni internazionali – Rainforest Action Network, Indigenous Environmental Network, BankTrack, Oil Change International, Reclaim Finance, Sierra Club, Urgewald – e presentato lo scorso 13 aprile in Italia, durante un evento organizzato nell’ambito di FestiValori, la rassegna incentrata su temi economici e finanziari, promossa da Valori.it e Fondazione Finanza Etica.
Prima il profitto
Lo studio rivela come le 60 maggiori banche del mondo abbiano continuato a destinare un’enorme mole di denaro al settore fossile, anche dopo l’Accordo di Parigi, il documento-chiave per la lotta al riscaldamento climatico firmato nella capitale francese nel 2015 al termine della Cop21, l’annuale conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il trattato impegnava il mondo intero a limitare l’aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5°C, per evitare di innescare una catastrofe climatica dalle conseguenze irreversibili. E fissava tra i suoi obiettivi anche quello di rendere «i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima».
La mitigazione delle emissioni implicherebbe l’abbandono immediato delle fonti fossili, lo stop a ogni progetto di espansione e, chiaramente, la sospensione di ogni finanziamento al settore. Il condizionale è però d’obbligo. Perché la finanza globale sembra andare in direzione ostinata e contraria alle raccomandazioni di quello storico accordo. Su 60 banche, ben 59 non dispongono di politiche sufficientemente solide per soddisfare l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5°C e, pur ostentando presunti impegni verso emissioni net zero, non sembrano voler imprimere un cambiamento drastico alle loro politiche: dal 2016 al 2022 i maggiori colossi finanziari del pianeta hanno destinato all’industria dei combustibili fossili 5.500 miliardi di dollari, una cifra che corrisponde a più del doppio del Pil di un Paese del G7 come l’Italia.
Questa cifra, peraltro, sottostima il reale sostegno della finanza al settore perché, come ha sottolineato a TPI Simone Ogno, ricercatore dell’organizzazione ReCommon, considera solo finanziamenti, prestiti e sottoscrizioni e non tiene conto degli investimenti, vale a dire ciò che in definitiva rivela il concreto indirizzo politico assunto dai board delle banche e di fatto segna la saldatura tra queste ultime e i colossi dell’energia, attraverso l’acquisizione di quote del capitale azionario. E negli ultimi tempi il settore fossile, anche a causa del conflitto in Ucraina, ha potuto garantire lauti dividendi ai propri azionisti: il 2022 ha fatto registrare alle multinazionali energetiche profitti record per un totale di 4.000 miliardi di dollari.
Ma quali sono le banche “nemiche del clima”? In cima alla classifica degli istituti finanziari più “generosi” verso il settore dei combustibili fossili ci sono da sempre una manciata di banche statunitensi, canadesi e giapponesi. JP Morgan mantiene salda la sua posizione in testa, con un totale di 434 miliardi di dollari destinati dal 2016 alle società del settore, scalzata però nel 2022 dalla Royal Bank of Canada che, nel corso dello scorso anno, ha superato la cifra stanziata dall’omologa statunitense, avendo elargito 42,1 miliardi contro i 39 di JP Morgan. La peggiore banca asiatica è Mitsubishi UFJ, mentre tra gli istituti europei è BNP Paribas ad aggiudicarsi la poco lusinghiera prima posizione, undicesima nella classifica totale di Banking on Climate Chaos.
Verso la catastrofe
Classifica nella quale non mancano le banche sistemiche italiane, Unicredit e Intesa Sanpaolo, che figurano rispettivamente in 39esima e 45esima posizione. Come ci spiega Simone Ogno: «Dal 2016, anno di entrata in vigore dell’Accordo di Parigi a oggi, Intesa Sanpaolo e UniCredit hanno concesso 63 miliardi di dollari tra prestiti e sottoscrizioni alle principali multinazionali del carbone, petrolio e gas. Una cifra da far tremare i polsi, se pensiamo che rappresenta circa due manovre finanziarie italiane».
Il campaigner di ReCommon sottolinea che Unicredit ha di recente fatto alcuni passi indietro sui suoi impegni di de-carbonizzazione, mentre «Intesa Sanpaolo di passi indietro non ne ha dovuti fare, dal momento che i suoi impegni su ambiente e clima sono tra i più scadenti a livello internazionale». Per anni, Intesa SanPaolo è sembrata la banca italiana preferita da Mosca, attraverso i suoi finanziamenti a Gazprom e Novatek, mentre ora sta orientando il suo portafoglio verso il business più appetibile sulla piazza, quello del gas naturale liquefatto statunitense, finanziando le principali società che operano sulla Costa del Golfo del Messico o direttamente i terminal per l’export di Gnl. Operazioni che mettono a repentaglio zone già martoriate da fenomeni naturali sempre più estremi e frequenti, e dove i costi dell’industria fossile sono scaricati sulla pelle delle comunità più fragili, per lo più afro-discendenti, indigeni o persone a basso reddito.
A subire sia decisioni imposte dall’alto, frutto della connivenza tra politica, industria fossile e banche, e gli effetti peggiori della crisi climatica sono i più vulnerabili, coloro che subiscono i danni senza compartecipare ai benefici. A godere di questi ultimi ci sono, come di consueto, gli azionisti dei colossi energetici e la finanza globale che, nel suo impeto predatorio e rapace, continua a perseguire profitti di breve periodo, nel solco del dictat neoliberista, incurante delle conseguenze delle proprie scelte.
La realtà è che non esiste alcuna volontà politica di rendere vincolanti gli impegni delle COP, come ha sottolineato Andrea Barolini, direttore di Valori.it, e nessun proposito, da parte dei legislatori, di imporre regole ad un settore, quello finanziario, che ha largamente dimostrato di non sapersi autoregolare. Condannando il pianeta e le comunità ad una catastrofe che si preannuncia ormai quasi certa.
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