Hernan Bedoya, in Colombia, è stato assassinato con quattro colpi di pistola. Stava protestando per difendere le terre della sua comunità dalla costruzione di una piantagione di banane che l’avrebbe messa a rischio. Lo stesso è successo nelle Filippine, dove sono stati uccisi quarantotto attivisti che si erano apposti alla coltivazione intensiva di caffè nei loro territori. Sono alcuni dei 207 ambientalisti assassinati nel 2017 in 22 paesi differenti. In America Latina, Asia. Ma anche Africa ed Europa.
L’allarme viene dalla ong inglese Global Witness che nell’ultimo report “At What Cost” ha messo insieme i numeri e ha denunciato come lo scorso anno, per chi tutela i diritti dell’ambiente, sia stato un anno horribilis. Quasi quattro vittime ogni settimana, colpite per il tentativo di “proteggere le loro terre e comunità contro l’estrazione mineraria, il business agroalimentare e altre produzioni che distruggono l’ambiente”, spiega l’organizzazione.
Secondo quanto sostenuto nel rapporto, il 60% delle morti si è concentrato nell’America del Sud, in particolare in Brasile, Perù e Nicaragua. “Il Brasile con 57 morti è il paese che ha registrato il numero maggiore di vittime”, sostiene l’ong.
“Si uccidono i militanti locali perché i governi e le aziende hanno a cuore il rapido profitto e non le vite umane. I reparti dei nostri supermercati sono riempiti di prodotti generati da questa carneficina. E ora le comunità, quelle che in modo coraggioso resistono ai funzionari corrotti, alle industrie distruttrici e alla devastazione dell’ambiente, sono brutalmente ridotte al silenzio”, ha denunciato Ben Leather, la responsabile di Global Witness.
Le intimidazioni servono a scoraggiare i militanti e i rappresentanti delle comunità indigene. In Honduras, per esempio, “la grande maggioranza dei difensori dei diritti umani è vittima di attacchi e minacce, subisce la criminalizzazione delle loro attività e l’impossibilità di ricorrere alla giustizia”, ha dichiarato Michel Forest, esperto nella difesa dei diritti umani alle Nazioni Unite.
Che la violenza sia direttamente legata ai prodotti comprati dai consumatori è uno degli obiettivi che il rapporto vuole dimostrare. I settori incriminati, come l’abbattimento delle foreste e l’estrazione mineraria, conducono ai “prodotti che si vendono nei negozi, come l’olio di palma, la soia utilizzata per nutrire i bovini” e chiamano a un comportamento responsabile.
Proteggere gli attivisti e garantire loro una tutela legale sono le richieste che l’ong avanza per creare “un commercio che si articoli in modo etico”.
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