La gente ha paura ad abitare questo quartiere. Chi si sposa se ne va lontano da qui. Lontano dai palazzi sporchi della polvere dell’ex Ilva, lontano da quelle ciminiere minacciose alla cui ombra si stende il quartiere Tamburi di Taranto.
Davanti alla parrocchia di Gesù Divino Lavoratore, Donato e Milena raccontano la loro storia. Lo stabilimento enorme si erge a una manciata di metri da qui. È impossibile non vederlo, è impossibile non sentirsi minacciati.
Il fumo sporca il cielo azzurro di fine novembre: “È di sera, però, che la situazione diventa insostenibile. La mattina ci svegliamo con la polvere che ricopre le macchine”. Come pure sui balconi delle case, dove uno strato leggero ma visibile di polvere rossastra si posa inesorabile da decenni.
“Noi abitiamo in linea d’area di fronte alla fabbrica. Non c’è nessun palazzo, nessuna barriera a dividerci dallo stabilimento e così, ogni volta che c’è vento, ci ritroviamo a combattere con la polvere che si infila dappertutto”. La casa di Milena e Donato è a poche centinaia di metri dall’ex Ilva, in una palazzina che nasce nel cuore del quartiere di Taranto la cui fama è tristemente associata all’acciaieria più grande d’Europa.
Dal balconcino della cucina si vede nitida la sagoma della fabbrica. Un’enorme copertura cerca di limitare il disperdersi delle polveri nell’aria, ma è troppo tardi. Qui a Tamburi l’aria è irrespirabile da quando quelle ciminiere sono state alzate.
È finito il tempo della rabbia, a Tamburi. Ora c’è spazio solo per una delusione profonda che troppo spesso si mischia all’esasperazione di un quartiere che non ce la fa più a contare i suoi morti. “Taranto ha offerto la propria vita per la nazione, subendo i danni ambientali e i decessi, adesso abbiamo bisogno che il paese aiuti Taranto a farci tornare alla vita normale”, dice Donato con la voce di chi da una vita ha a che fare con l’Ilva, nel bene e nel male.
È questo quello che chiedono i cittadini di qui: spazzare via la sofferenza e lasciare posto alla normalità.
La chiama una città “sfortunata”, Donato, perché a Taranto hanno piantato le radici industrie che non si sono curate affatto della sorte degli abitanti, lasciandoli macerare in un destino crudele. Non solo Ilva, anche Eni contribuisce a inquinare l’aria di Taranto e prima ancora Cementir, un cementificio che ha chiuso i battenti solo qualche anno fa. Troppo tardi per sperare di non aver creato danni a Taranto.
Tamburi nasce prima che arrivi l’Ilva, quando Taranto era ancora devota a un’economia semplice fatta di botteghe e agricoltura. Poi la fabbrica ha cambiato pelle alla città, che si è riscoperta operaia.
Se all’inizio per una realtà prettamente rurale come quella tarantina l’arrivo di Ilva sembrava una mamma dal cielo, col passare degli anni ci si è ritrovati a fare i conti con qualcosa di troppo grande da gestire: l’inquinamento ambientale.
Vivere nel quartiere Tamburi significa tante cose oggi, ma quella che schiaccia tutte le altre è la convivenza forzata con la polvere rossa che si alza dalla fabbrica. I bambini qui non possono andare a scuola né giocare nei parchi, dove la terra è malata come l’aria. Nei wind day, quando il vento si alza e la polvere appesta l’aria, le persone si barricano in casa. “Le finestre restano sigillate, non possiamo nemmeno accendere i condizionatori. È una situazione insopportabile”, spiega Milena.
Tutta la vita degli abitanti del rione Tamburi è fortemente condizionata dal mostro al di là della recinzione alta. Qui si conoscono tutti, si salutano tutti e tutti si chiedono la stessa cosa: “Che fine farà l’Ilva?”. “Moriremo tutti di Ilva”, risponde una commessa dietro il bancone di una panetteria del quartiere.
La gente nel rione Tamburi è esasperata più che in altre zone della città. Qui si respira l’aria sporca e l’insofferenza di chi subisce da decenni, di chi si ammala e muore.
Ma in tanti si trovano a vivere una condizione che lacera la coscienza: chi lavora all’ex Ilva sa il male che lo stabilimento fa alla città eppure è costretto a scegliere tra uno stipendio fisso e la salute. Un ricatto che va avanti da quando si è compresa la connessione tra morti e Ilva.
“È una lotta continua. Qui gli operai devono scegliere se avere uno stipendio o se pensare alla salute”, spiega Donato, che ha vissuto appieno questa condizione. Operaio dell’Ilva, ha visto parenti, amici e colleghi morire proprio per l’Ilva. Da ultimo il figlio Francesco, affetto da una malattia autoimmune e con cui ha convissuto con coraggio e una serenità inumana per quattordici lunghissimi anni.
Non è facile capire l’animo lacerato di chi in quella fabbrica è costretto a lavorare, voltando le spalle alla salute sua e del resto della città.
“Siamo la discarica d’Italia”, dice Milena con la voce ferma. Ed è difficile darle torto, ancora oggi, con i manifesti mortuari che invadono i muri di Tamburi, con l’età sempre troppo bassa sotto ai nomi. Quei manifesti che urlano in silenzio la disperazione di un quartiere che muore all’ombra dell’ex Ilva.
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