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Home » Salute

Obesità, il prof. Sbraccia a TPI: “La fame dipende dalla genetica”

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L’endocrinologo Paolo Sbraccia, professore ordinario di Medicina Interna al Dipartimento di Medicina dei Sistemi dell’Università Tor Vergata di Roma

"Dire al paziente 'Mangi di meno e si muova di più' è come dire a un depresso 'Sorrida alla vita'. La propensione all’obesità è legata alla genetica, non a pigrizia o mancanza di volontà. Mettersi a dieta non basta: servono anche farmaci e in alcuni casi la chirurgia". Colloquio con l’endocrinologo di Tor Vergata

I numeri parlano chiaro: 4 italiani su 10 sono in eccesso ponderale, 1 su 10 è obeso. Una fotografia allarmante per le tante complicanze legate all’obesità. Ma quali cause influiscono sull’insorgenza di questa malattia, quali sono gli approcci più corretti per affrontarla e curarla, e quali sono le prospettive scientifiche future? Ne abbiamo parlato con uno dei maggiori esperti in materia, il professor Paolo Sbraccia, esperto in Endocrinologia, ordinario di Medicina Interna al Dipartimento di Medicina dei Sistemi dell’Università Tor Vergata di Roma. 

Professore, oggi si parla di obesità come di una vera e propria epidemia. Quali sono i principali fattori di sviluppo? Quanto contano i geni e quanto lo stile di vita?
«Siamo di fronte a un’emergenza, tanto che a livello globale si parla di pandemia. Nel mondo circa un miliardo di persone è obeso e due miliardi sono in sovrappeso. Ci sono aree del pianeta, come gli Stati Uniti, dove possiamo ormai dire che i magri sono un’eccezione. L’impennata di casi si è avuta dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi molte persone non possono permettersi il cibo sano perché più costoso, e si rifugiano in quello ultra-processato, tipico dei fast food, che è economico. Si dice che circa il 50% della propensione a diventare obesi ha un substrato genetico. Si tratta di una malattia non solo per le molteplici complicanze che riducono le aspettative di vita, ma anche perché ha una forte base biologica. Non è causata, quindi, solo da pigrizia, golosità o mancanza di volontà. In tal senso trovo molto utile la nuova legge italiana sull’obesità, perché è la prima al mondo a riconoscerla come malattia». 

Questo dovrebbe cambiare anche l’approccio nei confronti del paziente.
«Dobbiamo tenere conto del fatto che quasi tutti hanno un centro della fame e della sazietà sregolato. D’altronde la nostra natura ci ha portato a sviluppare delle aree potentissime che ci spingono verso il cibo. Per cui è perfettamente inutile dire al paziente “Mangi di meno e si muova di più”. È come dire a un depresso “Sorrida alla vita”. Per natura siamo pigri e tendiamo a conservare le energie: andare a fare una corsetta è una sovrastruttura. Il meccanismo, quindi, è biologico, anche in chi non ha una chiara predisposizione genetica: per questo spesso fare una dieta non basta, e c’è il forte rischio di recuperare il peso perso. Bisogna attuare strategie croniche, come i farmaci o la chirurgia bariatrica». 

I dati ci dicono che l’obesità infantile è in aumento. Quanto è importante la prevenzione?
«Se la prevenzione è ridotta a misure, pur utilissime ma di limitato impatto, come non dare da mangiare le merendine, non riusciremo a smuovere la montagna. Dobbiamo capire che, se non facciamo nulla, le cose andranno sempre peggio. Servono anche azioni legislative efficaci, come è stato per esempio il divieto di fumo nei locali pubblici introdotto dalla legge Sirchia». 

Quanto contano le abitudini acquisite da ragazzi sullo sviluppo dell’obesità in età adulta?
«Molto. Un bambino obeso rischia di essere un adulto obeso. Non solo: anche se crescendo perderà peso, in età adulta avrà comunque maggiori rischi, per esempio di natura cardiovascolare, rispetto a chi è stato sempre magro, perché quegli anni di obesità hanno provocato dei danni». 

Quanto incide l’obesità sul nostro sistema sanitario?
«Circa il 90% delle patologie che affollano i nostri ospedali sono legate a quattro fattori: mangiare troppo e male, non fare sport, fumare e bere. Spendiamo ogni anno circa 160 miliardi di euro. Se con la bacchetta magica eliminassimo improvvisamente questi quattro elementi, avremmo una sanità molto più efficiente e risparmieremmo tantissimo». 

Esistono diete o cure che si sono dimostrate più efficaci di altre nel lungo periodo, o è più importante il cambiamento di stile di vita?
«La dieta dovrebbe sempre inserirsi in una modifica globale dello stile di vita, anche se non è facile. Nella maggior parte dei pazienti con obesità non basta educare a mangiare sano, ma si deve ricorrere a una terapia cronica. Fino a qualche anno fa esisteva solo la chirurgia bariatrica, riservata ai casi più gravi, mentre più di recente si sono sviluppati diversi farmaci. È interessante notare come un terzo dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico poi riprenda peso. Questo perché, come dicevamo, abbiamo dei potentissimi centri regolatori del bilancio energetico. Non si può quindi semplificare dicendo che sono persone che non vogliono fare sacrifici». 

Quando è più indicato l’intervento e quando i farmaci?
«Secondo le recenti linee guida, per i casi di sovrappeso e obesità di I e II grado andrebbe prediletto l’uso dei farmaci, mentre nell’obesità di III grado bisognerebbe optare per la chirurgia bariatrica. La speranza è che, grazie all’avanzamento tecnico-scientifico a cui assistiamo, fra una decina d’anni ci saranno strumenti farmacologici sempre più efficaci, per cui si ricorrerà all’operazione solo in casi limitati. Bisogna anche tener conto dei costi dei farmaci, non alla portata di tutti, mentre la chirurgia bariatrica viene rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale». 

Quali sono le principali patologie correlate all’obesità?
«Diabete, ipertensione, infarto, ictus, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, steatosi epatica, insufficienza respiratoria e renale, infertilità e molte altre. La lista è lunga e il costo, evidentemente, notevolissimo. Possiamo dire che non c’è organo che non risenta dell’obesità. Si è inoltre scoperto che c’è una chiara correlazione con l’insorgenza di tumori, in particolare quelli del tratto gastrointestinale, ma non solo». 

Non bisogna poi sottovalutare l’aspetto psicologico. C’è ancora un pregiudizio sociale che vede l’obesità come una “colpa personale”. Quanto pesa questo stigma?
«Bisogna tenere in considerazione l’aspetto psicologico dei pazienti, che si va ad aggiungere alle altre patologie fisiche di cui abbiamo parlato. Non solo le persone comuni, ma spesso anche molti medici, sono convinti che la colpa di tale condizione sia del paziente. È sbagliato e pericoloso far passare l’idea che la responsabilità sia di queste persone, bollate come sciatte o incapaci di prendersi cura di sé. È un fatto, torno a sottolineare, biologico. Chi è magro non è più bravo degli altri, ma ha la fortuna di avere una genetica diversa». 

Guardando al futuro, quali fronti della ricerca in materia le sembrano più promettenti? L’obesità potrebbe presto non essere più un’epidemia preoccupante come è attualmente?
«Voglio essere moderatamente ottimista. Ci sono due aspetti: da un lato avremo in breve tempo nuovi farmaci, che permetteranno ai medici di poter curare al meglio i pazienti, intervenendo sulle diverse patologie correlate. In più auspico che anche sulla ricerca genetica ci saranno passi in avanti, con la possibilità di fare analisi predittive. La speranza è quindi che un domani si possa arrivare alla medicina di precisione, in modo da poter somministrare a ogni paziente il farmaco più adatto alla sua condizione e curare così l’obesità e tutte le complicanze associate».

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