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Home » Salute

Perché i farmaci anti-obesità costano così tanto e non sono (ancora) mutuabili

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Credit: Unsplash

Dal Wegovy al Mounjaro, le iniezioni anti-obesità hanno prezzi che vanno dai 300 ai 600 euro al mese ovunque nel mondo. Ma in quasi nessun Paese i sistemi sanitari nazionali li rimborsano (almeno per ora). Così l’accesso alle terapie resta precluso a molti pazienti. La grande sfida per la mutuabilità inizia adesso

Farmaci anti-obesità: perché costano così tanto e non sono (ancora) mutuabili

Negli Stati Uniti, dove il 40% degli adulti è obeso, la più celebre delle star televisive, Oprah Winfrey, ha pubblicamente rivelato di essere riuscita a calare da un peso di 107 chili a 75 anche grazie all’utilizzo di un farmaco che inibisce la fame. «Prendermi in giro è stato uno sport pubblico per venticinque anni», ha raccontato per la prima volta, circa due anni fa, in un’intervista al magazine People che ha destato grande attenzione. «Mi sono resa conto che per tutti questi anni mi ero incolpata per il sovrappeso», ma «ho una predisposizione che nessuna forza di volontà potrà mai controllare». «L’obesità – ha ricordato – è una malattia. Non è una questione di forza di volontà: è una questione di cervello. Il fatto che esista una ricetta approvata dalla medicina per gestire il peso e mantenersi in salute mi sembra un sollievo, una redenzione, un dono».

Il farmaco assunto da Winfrey – in combinazione con esercizio fisico quotidiano – è il Wegovy, una soluzione per iniezione sottocutanea prodotta dalla casa farmaceutica danese Novo Nordisk. È in vendita solo da pochi anni: le autorità sanitarie degli Stati Uniti lo hanno autorizzato nel 2021, mentre nell’Unione europea il via libera è arrivato nel 2022. Ma non tutti possono permetterselo.

Una confezione da quattro dosi, corrispondente a un mese di trattamento, costa in Italia tra i 300 e i 400 euro. Negli Usa il prezzo varia a seconda della copertura assicurativa, ma per chi è senza polizza il prezzo fino allo scorso marzo arrivava a 1.350 dollari: poi, grazie al miglioramento della situazione delle scorte nei magazzini, è stato ridotto a 500 dollari. Il problema è che – tranne rarissime eccezioni (il Regno Unito, ma solo se il paziente rientra in determinati parametri) – non è previsto alcun rimborso da parte dei sistemi sanitari nazionali. Così l’accesso a queste terapie è di fatto precluso a molti.

La questione della non mutuabilità non riguarda solo il Wegovy, ma tutti i farmaci contro l’obesità. Tuttavia, almeno nel nostro Paese, primo al mondo a riconoscere per legge l’obesità come una malattia, la situazione potrebbe presto cambiare.
LEGGI ANCHE: Obesità raddoppiata nel mondo in 15 anni: come curare la malattia del secolo

Semaglutide e tirzepadite

Dal 2023, negli Stati Uniti gli obesi possono ridurre la sensazione di appetito anche con un’altra soluzione da iniettare sotto-pelle: lo Zepbound, sviluppato dalla statunitense Eli Lilly. Il prezzo di listino è pari a circa 1.000 dollari, ma la casa farmaceutica ha recentemente introdotto dei piani di risparmio che abbassano il costo fino a due terzi, mentre per chi ha un’assicurazione sanitaria l’esborso varia a seconda della copertura. 

Il medicinale non ha ancora ricevuto, invece, il nullaosta dall’Agenzia europea per i medicinali (l’Ema). Quindi in Italia non lo si trova.

La differenza tra Wegovy e Zepbound sta nel principio attivo: il primo è a base di semaglutide, il secondo a base di tirzepadite. Senza entrare in difficili tecnicismi, la semaglutide è una molecola che replica l’effetto del Glp-1, un ormone naturale che regola il senso di sazietà, mentre la tirzepatide va oltre: “imita” non solo l’effetto del Glp-1, ma anche quello del Gip, un altro ormone che riduce l’appetito. In sostanza, la tirzepadite è più efficace per perdere peso.

Nessuna delle due molecole, peraltro, è stata creata per contrastare l’obesità. Entrambe sono state sviluppate originariamente con l’obiettivo di trattare il diabete mellito di tipo 2: pur con meccanismi diversi, infatti, esse sono in grado di migliorare la risposta dell’insulina e di far abbassare la glicemia. Solo successivamente i ricercatori hanno notato, e poi accertato, le potenzialità rispetto al trattamento dell’obesità.

Sia il Wegovy sia lo Zepbound, quindi, hanno due “fratelli maggiori” – ossia contenenti lo stesso principio attivo – destinati ai pazienti diabetici: sono l’Ozempic, a base di semaglutide, prodotto anch’esso da Novo Nordisk; e il Mounjaro, a base di tirzepadite, commercializzato da Eli Lilly.

Entrambi questi farmaci – che differiscono dai loro “discendenti” solo per il dosaggio – hanno ricevuto il nulla-osta alla vendita sia negli Stati Uniti sia in Europa tra il 2017 e il 2022. L’anno scorso l’Ema, competente per l’Unione europea, ha autorizzato l’utilizzo del Mounjaro anche per il trattamento dell’obesità e di condizioni sovrappeso. 

In Italia un trattamento mensile di Ozempic costa tra i 120 e i 180 euro, mentre per il Mounjaro si sale a un prezzo tra i 350 e i 600 euro a seconda del dosaggio. La rimborsabilità da parte del Sistema Sanitario Nazionale è prevista, ma solo per i pazienti diabetici. Chi – su indicazione medica – intende assumere la tirzepadite per combattere la fame deve pagare.

Svolta orforglipron?

Il Wegovy e il Mounjaro hanno portato una piccola rivoluzione nelle terapie farmacologiche dell’obesità. La prossima svolta potrebbe essere rappresentata dall’orforglipron, un farmaco sperimentale sviluppato da Eli Lilly. Come la semaglutide, agisce sull’ormone Glp-1, ma ha una struttura chimica più semplice: una molecola più piccola e meno intricata, che per questo può essere assunta come una semplice pillola anziché tramite iniezione. Avendo un costo di produzione inferiore, anche il prezzo al dettaglio potrebbe essere sensibilmente più basso rispetto agli altri farmaci per l’obesità.

Gli studi clinici hanno dimostrato che l’orforglipron – testato anche come trattamento per il diabete di tipo 2 – ha una significativa efficacia in termini di riduzione del peso corporeo.

Se i test, attualmente in Fase 3, continueranno a essere positivi, Eli Lilly procederà a richiedere alle principali autorità regolatorie mondiali l’approvazione per il trattamento dell’obesità e del diabete di tipo 2. I tempi potrebbero essere relativamente brevi: tra la fine del 2025 e il 2026.

Farmaci anti-obesità: i fallimenti passati

La storia passata dei farmaci per il trattamento di questa malattia è costellata di fallimenti. Negli ultimi trent’anni diverse molecole che erano state approvate dalle autorità sanitarie sono state ritirate dal commercio in seguito alla scoperta di effetti collaterali gravi imprevisti. 

Ad esempio, nel 1997, a causa di potenziali rischi cardiovascolari, fu revocata la licenza alla vendita negli Stati Uniti e in Europa (ma non Italia, dove non era mai stata autorizzata) della fenfluramina, un anoressizzante che stimola il rilascio di serotonina nel cervello. 

Nel 2009 fu vietato in tutto il mondo l’utilizzo del rimonabant, un farmaco che blocca gli stessi recettori nel cervello che causano la cosiddetta “fame chimica”: si riscontrò, infatti, che esso può provocare gravi effetti collaterali psichiatrici, come depressione, ansia e in rari casi, pensieri suicidi. E ancora, più di recente, nel 2020, la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha ritirato dal mercato la lorcaserina – mai approvata dall’Ema – dopo aver verificato una correlazione tra la sua assunzione e un potenziale aumento del rischio di cancro.

Obesità: le Linee Guida italiane sui farmaci

Oggi, in Italia, in base alle Linee Guida della Società Italiana dell’Obesità (Sio) approvate dall’Istituto Superiore di Sanità, per le persone obese sono raccomandate, a seconda degli specifici casi, cinque farmaci: le già citate semaglutide (Wegovy) e tirzepadite (Mounjaro) e poi orlistat, liraglutide e la combinazione naltrexone/bupropione. 

Le autorità sottolineano, peraltro, come la terapia farmacologica vada sempre accompagnata a un’alimentazione sana e all’esercizio fisico.

L’Orlistat, derivato della lipostatina, è un inibitore selettivo che agisce sull’intestino ostacolando l’assorbimento dei grassi. Prodotto da varie case farmaceutiche, è in vendita sotto diverse denominazioni: Xenical (sviluppato dalla Cheplapharm Arzneimittel GmbH), Alli (GlaxoSmithKline) e Beacita (Aurobindo Pharma). Il prezzo per un mese di trattamento varia dai 30 ai 120 euro a seconda del dosaggio.

La liraglutide è un ipoglicemizzante che agisce anche sul cervello riducendo l’appetito e rallentando lo svuotamento dello stomaco. È commercializzata da Novo Nordisk con la denominazione Saxenda e costa circa 250 euro al mese.

La combinazione di naltrexone (un antagonista degli oppiodi) e bupropione (un antidepressivo) agisce su due importanti aree del cervello: sul centro dell’appetito per aumentare il senso di sazietà e sul sistema della ricompensa per aiutare a controllare le voglie e l’impulso a mangiare. I due principi attivi sono presenti nel Mysimba, un farmaco prodotto da Bruno Farmaceutici: un mese di trattamento costa tra i 100 e i 200 euro a seconda del dosaggio.

Il caso britannico

I farmaci anti-obesità costano molto principalmente perché sono il risultato di lunghi e onerosi processi di ricerca da parte delle aziende produttrici: queste mantengono l’esclusiva sul mercato fino alla scadenza del brevetto e dunque, nel frattempo, si trovano a operare di fatto in un regime di monopolio che le avvantaggia.

A livello europeo, per nessuno di questi farmaci è prevista la rimborsabilità del costo da parte dei sistemi sanitari nazionali, anche se ora nel nostro Paese con la Legge Pella – che, primo caso al mondo, riconosce l’obesità come malattia – potrebbero registrarsi novità.

Un caso citato spesso è quello del Regno Unito, dove la mutuabilità è ammessa, seppur per una porzione limitata di pazienti. In particolare, il National Health Service rimborsa la semaglutide – per un massimo di due anni – ai pazienti che presentino un indice di massa corporea (Imc) pari ad almeno 35 kg/m² e una comorbilità legata al peso, mentre il prezzo della tirzepatide è azzerato dallo Stato per gli obesi con almeno 40 kg/m² di Imc e almeno quattro condizioni fra queste cinque: ipertensione, colesterolo alto, apnea ostruttiva del sonno, malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2.

Farmaci anti-obesità: niente scorciatoie

In Italia e nel resto d’Europa, i consumatori, come pure le industrie farmaceutiche, spingono per la concessione della mutuabilità.

Negli scorsi mesi e settimane Robert Nisticò (e in un’intervista di questi giorni a TPI), presidente dell’Agenzia italiana del Fermaco (Aifa), interpellato sul tema, ha spiegato che l’agenzia è pronta a valutare tale possibilità, ma ha anche espresso cautela, mettendo in guardia sul fatto che per le casse dello Stato si profilerebbe un esborso non secondario: Nisticò ha sottolineato come i farmaci contro l’obesità non debbano essere visti «come una scorciatoia rispetto ai corretti stili di vita, che sono la prima forma di prevenzione».

Il riferimento è agli utilizzi di semaglutide e tirzepadite da parte di chi non è obeso o sovrappeso, ma vuole solamente dimagrire, una tendenza crescente in particolare negli Stati Uniti. 

Lo scorso aprile l’istituto di ricerca indipendente Health Care Cost Institute ha pubblicato un’analisi in cui si rileva che il numero di pazienti con assicurazione sanitaria che usano l’Ozempic senza una diagnosi di diabete o obesità è triplicata tra il 2019 e il 2022.

Tra le celebrità che hanno reso noto di aver fatto uso di questi farmaci ci sono l’ex tennista Serena Williams, che ha raccontato di aver usato lo Zepbound dopo la seconda gravidanza, e l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, che il giorno di Santo Stefano dell’anno scorso ha pubblicato sul suo social X una foto di se stesso travestito da Babbo Natale con la didascalia «Ozempic Santa», chiarendo nei commenti che in realtà stava usando Mounjaro per perdere peso.

La sfida prossima per gli enti regolatori, dunque, sarà quella di garantire la rimborsabilità di questi prodotti a chi ne ha bisogno per curare una malattia. E precluderla, invece, a chi conduce uno stile di vita disordinato e vuole dimagrire a spese dello Stato.

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