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Home » Politica

Premierato: così Giorgia Meloni punta a diventare la presidente assoluta d’Italia

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Premier rafforzato dal voto diretto. Quirinale indebolito. Parlamento svuotato Ecco quando e come nasce la riforma della destra

L’economia è in frenata, i poveri aumentano, le famiglie tagliano le spese, la Sanità pubblica è ormai al punto di non ritorno e persino i medici sono pronti a scendere in piazza a scioperare per difendere le proprie pensioni.

La situazione nel Paese, insomma, è quella che è, eppure bisogna ammetterlo: il Governo dei «patrioti» si sta dando un gran daffare. Almeno a parole, corre. Anzi galoppa ad annunciare ogni giorno nuovi accordi e nuovi progetti che chissà se mai vedranno la luce. Un giorno c’è un ponte sullo Stretto, un altro un’intesa con l’Albania, e così via.

Neanche il tempo di lasciarci esaminare una delle manovre finanziarie più modeste degli ultimi anni, che Giorgia Meloni allunga subito sul tavolo un’altra fiche e sposta l’attenzione altrove: secondo la presidente del Consiglio, è questo il momento di fare una riforma costituzionale. 

Premierato: eccolo il compromesso trovato fra i partiti della maggioranza. Ovvero: premier eletto direttamente dal popolo, con l’aggiunta di una norma anti-ribaltoni e anti-governi-tecnici, più un premio di maggioranza al 55% per chi vince le elezioni e l’abolizione dei senatori a vita nominati dal Quirinale.

Per la stragrande maggioranza dei costituzionalisti – ma anche per un meloniano dell’ultima ora come l’ex presidente del Senato Marcello Pera, oggi a Palazzo Madama con Fratelli d’Italia – il disegno di riforma è un pasticcio.

Ma non solo: è pure pericoloso. Primo: perché indebolisce la figura del presidente della Repubblica, che viene privata del potere di nominare il presidente del Consiglio e, a differenze di quest’ultimo, non può fregiarsi della legittimazione popolare.

Secondo: perché svuota definitivamente di qualsiasi ruolo sostanziale il Parlamento, la cui azione – già oggi svilita dal crescente ricorso a decreti e questioni di fiducia – sarebbe preordinata in partenza alla realizzazione del programma di governo.

Terzo: perché, con la norma anti-ribaltoni, l’eventuale secondo premier della legislatura – scelto dal Colle pescando dai gruppi parlamentari della maggioranza – si troverebbe di fatto in una posizione di maggior forza rispetto al suo predecessore, avendo a disposizione “l’arma” dello scioglimento anticipato delle Camere in caso di crisi.

Quarto, infine: perché (almeno per ora) il premio di maggioranza non è ancorato a nessuna soglia minima, cosicché un partito o una coalizione che ottiene, ad esempio, il 25% dei voti potrebbe ritrovarsi automaticamente il 55% dei seggi, un “regalo” un po’ troppo prezioso.

Si tratta chiaramente solo di un testo di partenza. Ora la palla passa al Parlamento, che potrà apportarvi correttivi più o meno forti. Ma intanto dà un’idea ben chiara dell’idea di sistema istituzionale propria di questo centrodestra.

La Fiamma arde
Questa riforma arriva da lontano. Estremizzando il concetto, potremmo dire: si scrive Giorgia ma si legge Giorgio. Giorgio Almirante, ovviamente. Leggete cosa diceva il fondatore del Movimento Sociale Italiano, intervistato nel 1983 da Enzo Biagi: «Per assicurare stabilità politica occorre che il capo del governo non sia tratto fuori dal forcipe della partitocrazia ma venga nominato direttamente dal presidente della Repubblica. E perché quest’ultimo possa farlo occorre che a sua volta non sia servo della partitocrazia ma venga eletto direttamente dal popolo». 

Certo, quello vagheggiato dal leader missino era presidenzialismo, mentre la sua “nipote politica” ha architettato il premierato. Ma la visione d’insieme è la stessa e risponde alla tradizione anti-parlamentarista storica della destra: subordinare cioè il potere legislativo a quello esecutivo e affidare l’indirizzo politico del Paese a un uomo o una donna forte, possibilmente di carattere decisionista, e comunque legittimato dal voto popolare.

Lo conferma anche il video-appello di qualche giorno fa lanciato da Meloni agli italiani: «Volete contare e decidere o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi?».

Andando ancora più indietro negli anni, già alle elezioni politiche del 1948 l’Msi sosteneva che «lo Stato deve essere guidato da un capo eletto dal popolo e non scelto con un compromesso tra i partiti» e aggiungeva che questo “capo-popolo” dovrebbe essere «posto in condizione di dirigere effettivamente ed efficacemente la cosa pubblica con piena responsabilità di fronte alla rappresentanza nazionale ma con poteri sufficienti ad assicurare stabilità e continuità». Alla destra, insomma, piacciono e sono sempre piaciuti i pieni poteri.

Equilibrismi
In effetti sul programma elettorale del 2022 di Fratelli d’Italia si prometteva proprio una «riforma presidenziale dello Stato, al fine di assicurare la stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il Governo». E impegno analogo (presidenzialismo) si erano assunti gli alleati della Lega e di Forza Italia. Alla fine, invece, la coalizione ha optato per l’elezione diretta del presidente del Consiglio, anziché del Capo dello Stato. Un aggiustamento di rotta sul quale hanno inciso almeno due considerazioni. 

La prima è che nella maggioranza sono consapevoli dei rischi che avrebbe comportato intervenire direttamente sulla figura del presidente della Repubblica, una carica di garanzia super partes che soprattutto negli ultimi anni ha acquistato grande credibilità agli occhi degli italiani. 

La seconda è che il premierato, a differenza del presidenzialismo, potrebbe riscuotere qualche consenso anche tra le forze e l’elettorato delle opposizioni. Addirittura era nel programma elettorale di Italia Viva e Azione, che avevano ribattezzato il presidente del Consiglio eletto dal popolo come «Sindaco d’Italia».

Adesso che l’accorpamento tra i due partiti si è rotto, Carlo Calenda ha fatto sapere che lui in realtà è contrario. Matteo Renzi, invece, non retrocede e – se sarà apportata qualche modifica in sede di esame parlamentare – non esclude di appoggiare la riforma del centrodestra. 

Anche in caso di appoggio di Italia Viva, peraltro, difficilmente il testo firmato dalla ministra Elisabetta Casellati otterrà l’approvazione dei due terzi sia alla Camera sia al Senato. All’orizzonte quindi – forse già a metà 2025, se non ci saranno intoppi – si profila il passaggio per il referendum costituzionale, che proprio per Renzi si rivelò letale nel 2016. Ecco allora che Meloni, memore di quel che accadde allora, ha già messo le mani avanti: «In caso di bocciatura, non mi dimetterò».

Ma la premier rilancia: «Sono certa – dice – che la grande maggioranza degli italiani capirà di avere l’occasione storica di rendere l’Italia una democrazia matura e voterà in coscienza e non per calcolo politico».

Meloni avrebbe voluto inserire nella riforma la clausola “simul stabunt simul candent”, ossia: se il presidente del Consiglio viene sfiduciato dal Parlamento o si dimette, si torna alle urne. È evidente che, calato nell’attuale quadro politico, questo principio avrebbe chiaramente rafforzato la posizione della stessa leader di Fratelli d’Italia, poiché l’unica alternativa al suo governo sarebbero le elezioni anticipate. 

È stata la riluttanza di Lega e Forza Italia – preoccupate appunto di non concedere troppo spazio all’alleata – a far sì che la clausola saltasse. Nel testo della riforma è stata così inserita la cosiddetta norma anti-ribaltoni e anti-governi-tecnici: in caso di decadenza del premier, cioè, il Quirinale può nominare – ma soltanto una volta – un secondo premier, scegliendolo tra i parlamentari della maggioranza. Cosicché la concorrenza fra leader all’interno della coalizione resta sempre viva.

Fermarla subito
Secondo la politologa Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, questa «è una riforma incostituzionale (secondo alcuni costituzionalisti, viola l’articolo 1 della Costituzione) perché rovescia il principio democratico, mettendo al primo posto la funzione esecutiva anziché il potere legislativo del Parlamento». 

«Il Parlamento – dice Urbinati a TPI – sarebbe a quel punto il contenitore della maggioranza, il sostegno dell’esecutivo. Ricordiamoci che la democrazia non è solo andare a votare: è anche controllo, opposizione, contestazione e, se necessario, scioglimento anticipato delle Camere, eventualità quest’ultima che con questa riforma verrebbe abolita».

«Anche il Presidente della Repubblica – prosegue la politologa – è svilito da questa riforma: diventa una sorta di maggiordomo che entra in azione se il capo dell’esecutivo non ha più la maggioranza in parlamento e per ricomporre la crisi». 

«Questa riforma deturpa la democrazia trasformandola in una forma di “cesarismo” o “bonapartismo”». Urbinati chiarisce il concetto facendo due esempi: «Nel 1851 Napoleone III fece in Francia un colpo di mano di tipo plebiscitario: introdusse il suffragio universale per potere ottenere il consenso degli elettori proponendo loro un quesito sul proprio ruolo di capo indiscusso dell’esecutivo. Un altro esempio è la legge Acerbo del 1923, che introdusse il premio di maggioranza e fu voluta da Benito Mussolini per assicurarsi una solida maggioranza parlamentare. Oggi rischiamo una forma di cesarismo, ovvero l’acclamazione del leader dell’esecutivo usando il consenso popolare per svilire il valore della democrazia a dominio della maggioranza».

«Anche la funzione di controllo dell’opinione pubblica – aggiunge la docente della Columbia University – verrebbe sminuita dall’eventualità di non poter più sciogliere anticipatamente le Camere. Noi elettori verremmo chiamati solo ogni cinque anni a dire Sì oppure No al leader di turno, poi non serviremmo più a nulla». 

Adesso, conclude Urbinati, «il problema è non fare passare la riforma, perché a quel punto quel che oggi è un “di fatto” verrebbe costituzionalizzato: finché non lo è, lo possiamo contestare e cambiare direttamente, ma se si fa norma fondamentale diventa una forma legittima di sopruso».

Crisi vere e presunte
Da parte sua Meloni sottolinea che il premierato «garantisce due obiettivi che dall’inizio ci siamo impegnati a realizzare: il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo fine a ribaltoni, giochi di palazzo, trasformismo e governi tecnici» e «garantire che chi viene scelto dal popolo possa governare con un orizzonte di legislatura, garantendo la stabilità».

Ma stabilità dei governi non fa necessariamente rima con buona politica e benessere diffuso tra i cittadini, così come l’instabilità degli esecutivi non si traduce per forza in recessione o inefficienza.  

Durante il miracolo economico, tra il 1951 e il 1963, si susseguirono ben tredici governi, eppure il Pil nazionale registrò una crescita media del 5,9%. E negli anni Settanta le continue crisi di governo non impedirono al Parlamento di varare leggi di importanza epocale come lo Statuto dei lavoratori o la legalizzazione del divorzio e dell’aborto.

Rispetto ad allora, semmai, ciò che si è perso per strada è la capacità dei partiti di rappresentare le istanze provenienti dalla società. Prima di una riforma costituzionale, allora, ci sarebbe forse bisogno di una massiccia opera di auto-ristrutturazione da parte del sistema politico. Ma ciò vorrebbe dire per gli stessi partiti mettersi in discussione. Voi ci credete?

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