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Home » Esteri

Le donne di Aleppo est che preferiscono suicidarsi pur di non essere stuprate

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Sono almeno 20 le donne siriane che hanno scelto di suicidarsi pur di non finire nelle mani dei soldati e diventare così oggetto di violenze e di abusi sessuali

A ventiquattro ore dalla liberazione di numerosi quartieri orientali di Aleppo da parte delle forze lealiste fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad – con il supporto dei russi e delle milizie sciite iraniane –, alle scene di giubilo dei soldati dell’esercito siriano in festa trasmesse da alcune emittenti di stato si contrappongono decisamente le innumerevoli richieste d’aiuto da parte dei civili rimasti intrappolati nella città sotto assedio. 

Gli appelli sono stati diffusi attraverso alcuni tweet sui social network nelle ore in cui le forze governative avanzavano per le strade della città siriana. Nella sola giornata di martedì, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite, sono state uccise 82 persone (soprattutto donne e bambini). 

“Decine di corpi senza vita giacciono riversi per le strade dei quartieri orientali della città. A causa dei pesanti bombardamenti, i residenti non sono riusciti a recuperarli per timore di essere uccisi”, ha reso noto in un comunicato l’Alto commissario per i diritti umani, Zeid Ra’ad al Hussein, il quale ha precisato che le ottantadue vittime vivevano nei quartieri di Bustan al-Qasr, al-Ferdous, al-Kallaseh e al-Saleheen, tutti e quattro sotto il controllo delle forze governative siriane. 

Alle richieste disperate dei civili in trappola si sono aggiunti altri orrori, come la decisione coraggiosa di almeno venti donne siriane che hanno scelto di suicidarsi pur di non finire nelle mani dei soldati e diventare così oggetto di violenze e di abusi sessuali, secondo quanto riportato dal New York Times. O delle figlie che domandano ai propri padri di ottenere il permesso per essere uccise prima di essere catturate e stuprate dai miliziani.

A raccontarlo è Muhammad Al-Yaquobi, studioso e religioso islamico siriano di primo piano fuggito dalla Siria, che ha pubblicato un tweet martedì dicendo di aver ricevuto numerose richieste da Aleppo, in cui molte persone gli domandavano se “un uomo può uccidere una moglie, una sorella o una figlia per salvarla prima che cada nelle mani dei soldati e venga così stuprata davanti a lui”.

Il suicidio è una pratica vietata nell’islam. 

Un attivista siriano ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un altro messaggio scritto da una ragazza di Aleppo che si rivolge ai religiosi e agli studiosi della dottrina islamica, con queste parole:

A tutti i leader religiosi e studiosi di tutto il mondo. A tutti coloro che presumibilmente portano un pesante carico sulle loro spalle. Sono una delle ragazze di Aleppo che nel giro di poche ore potrebbe essere stuprata. Non ci sono né uomini né armi tra di noi e quegli animali che vengono definiti esercito siriano. Non voglio niente da voi, neanche le preghiere. Sono ancora in grado di parlare e credo che le mie preghiere siano più sincere della vostra. Tutto quello che chiedo è di non prendere il posto di Dio e giudicarmi quando mi suiciderò. Ho intenzione di farlo e non mi preoccupo se mi condannerete all’inferno. Ho intenzione di togliermi la vita perché così il mio corpo non potrà apportare alcun piacere per coloro che non avevano nemmeno il coraggio di pronunciare il nome di Aleppo pochi giorni fa. Ho intenzione di suicidarmi ad Aleppo, perché il giorno del giudizio è appena arrivato e non credo che l’inferno sia peggio di quello che già stiamo vivendo…“. 

Dal 2011, i siriani hanno affidato ai social network come Twitter, Facebook e Instagram i loro appelli affinché i governi occidentali ponessero fine al conflitto arrivato al suo sesto anno. Senza ottenere risposta. 

In questo quadro drammatico, i loro tweet risuonano sulla rete come un grido di dolore. Le aree dapprima controllate dai gruppi di ribelli si riducono con il passare del tempo e quelle riconquistate dall’esercito siriano non garantiscono alcuna via di fuga.

I civili rimasti intrappolati tentano di salvarsi accovacciandosi sotto ciò che rimane degli edifici bombardati o proteggendosi tra le macerie della loro città. Quando le bombe dal cielo non cadono e non interferiscono con la poca elettricità di cui possono disporre, usano i loro piccoli dispositivi per condividere con il mondo intero il loro orrore, la loro paura, l’angoscia e la rabbia. 

Come ha fatto l’attivista Lina Shamy che vive ad Aleppo e lunedì sera ha pubblicato un video su Twitter con il suo appello: “Questo potrebbe essere il mio ultimo video. Più di 500mila persone che si ribellarono contro il dittatore Bashar al-Assad sono ora minacciate di morte o corrono il rischio di essere uccise dai bombardamenti”. 

Martedì 13 dicembre, l’agenzia di stampa Afp ha riferito che la Turchia sta portando avanti dei negoziati con la controparte russa e le forze governative di Assad che avanzano su Aleppo, al fine di organizzare dei passaggi sicuri per i civili e consentire loro di uscire fuori dalla città. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha convocato una riunione di emergenza, mentre a Istanbul migliaia di persone hanno protestato davanti all’ambasciata russa chiedendo la fine dell’assedio ad Aleppo. 

Il resto del mondo dal canto suo può fare ben poco, se non continuare a leggere Twitter, piangere e chiedere scusa. 

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