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Il ragazzo africano che ha vinto la battaglia per gli schiavi del caporalato in Italia

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Yvan Sagnet è il camerunense che ha promosso il primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia, portando all'introduzione ufficiale del reato penale di caporalato

Yvan Sagnet è di origini camerunensi, ha 31 anni ed è laureato in ingegneria delle telecomunicazioni al politecnico di Torino, oggi è Cavaliere della Repubblica. Nell’estate del 2011, per mantenersi agli studi, è andato a raccogliere pomodori nelle campagne pugliesi, a Nardò, dove è stato inglobato in un sistema di sfruttamento del lavoro con turni massacranti lunghi anche 18 ore, paga minima, che spesso non superava i 30 euro al giorno, e condizioni di igiene, vitto e alloggio precarie e malsane.

Yvan è stato il promotore del primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia con il quale è riuscito ad accendere i riflettori sul fenomeno del caporalato.

LEGGI: Cos’è il caporalato 

L’espressione “caporalato” indica l’intermediazione illegale tra lavoratore e datore di lavoro. I caporali sono coloro che reclutano manodopera per impiegarla presso terzi in condizioni di sfruttamento. Il fenomeno interessa prevalentemente il settore agricolo, ma può registrarsi anche nell’edilizia.

Grazie allo sciopero condotto da Yvan Sagnet quello che era punito con una semplice sanzione amministrativa venne inserito tra i reati perseguibili penalmente nel codice penale nel 2011, con un nuovo articolo: il 603-bis.

Il 18 ottobre 2016 la Camera approva in via definitiva la legge contro il caporalato: 346 i voti a favore (Pd, Si, M5s, FdI, Socialisti, Ap) e nessun contrario. Con le aggiunte all’articolo 603-bis vengono introdotte le sanzioni penali non solo per i caporali, ma anche per i datori di lavoro consapevoli dell’origine dello sfruttamento. Fino a sei anni di carcere, che possono diventare otto in caso di violenza o minaccia per chi commette il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Yvon Sagnet ha raccontato a TPI la propria esperienza e i risultati raggiunti dopo la sua battaglia.

Ti sei trasferito in Italia perché – come hai sempre dichiarato – innamorato della nostra cultura, delle nostre tradizioni e della nostro sistema economico. Per aver perso la borsa di studio ti sei visto costretto a cercare nuove fonti di guadagno con il lavoro nei campi finendo sfruttato dal caporalato, dormendo in una masseria con 500 persone, pagato a cottimo, e subendo il ricatto dei caporali. Ma come si arriva a questo?

“Nel 2011 la crisi economica colpiva fortemente l’Italia: a Torino c’era molto meno lavoro e quindi era difficile restare sul territorio. Non riuscivo a sanare le mie esigenze con i lavoretti locali, dovevo fare fronte a tante spese. Chiedendo ad alcuni amici per altre possibilità mi fu consigliata la raccolta degli ortaggi in Puglia. Si guadagnava bene, dicevano, e decisi di provare”.

Cosa hai trovato lì?

“Non mi aspettavo una realtà del genere, anche nella mia Africa non avevo mai conosciuto un simile sfruttamento: tendopoli che sembravano campi di concentramento, sporcizia, turni massacranti sotto il sole cocente, viaggi stipati nei pulmini per raggiungere i campi. Eravamo sfiancati dal lavoro e dalla paga bassissima, vivendo nel giogo dei caporali per ogni nostro spostamento da e per i centri abitati. Molte persone arrivano in Italia credendo di trovare il paradiso, non immaginano cosa ci sia dietro”.

Non hai pensato di andar via, di scappare?

“La mia condizione di partenza era difficile: quando sono arrivato a Nardò avevo solo i soldi del viaggio di andata, speravo di guadagnare a sufficienza per pagare il ritorno e quando compresi cosa c’era dietro quel lavoro volevo andarmene, ma i caporali avevano i miei documenti, tutti eravamo sotto quel ricatto”.

Così sei riuscito a smuovere il coraggio degli altri braccianti e a organizzare la rivolta che ha trovato l’attenzione della politica e della stampa e che ha portato alla realizzazione della legge. Da allora sono passati diversi anni, cosa è cambiato?

“Fino al 2011 il caporalato era solo un reato amministrativo, mentre il fenomeno esiste da decenni. Dopo la nostra battaglia il governo si è attivato, abbiamo ottenuto una serie di risultati, anche con la magistratura fino all’ultima stesura della legge nell’ottobre del 2016, ma il testo non è ancora completo. È necessario che vengano introdotti degli elementi di prevenzione”.

Quali sono le problematiche?

“È difficile che il lavoratore denunci lo sfruttatore. La denuncia funziona solo se vengono arrestati i caporali e gli imprenditori. Il caporale arrestato oggi viene subito sostituito da un altro. Bisogna intercettare i vertici del sistema. La normativa italiana sull’immigrazione che prevede il reato di clandestinità complica le cose: si ha paura denunciando di essere rintracciati come clandestini e di essere espulsi”.

Quante connessioni ci sono tra il caporalato e la tratta di migranti?

“I due fenomeni sono strettamente connessi, perché molti di questi caporali sono implicati nel reclutamento dei lavoratori direttamente nel loro paese di origine, soprattutto per rumeni e bulgari. In Puglia e Sicilia, durante i periodi di raccolta, sono decine e decine i pulmini pieni di lavoratori arruolati dai caporali”.

Stesso dicasi per i paesi extracomunitari…

“Dalle intercettazioni venute fuori con il processo ‘Sabr’, l’unico oggi attivo per il caporalato, è emerso che i caporali prelevavano i lavoratori dalla Tunisia, li facevano arrivare in Sicilia, a Pachino, e un intermediario italiano si occupava di procurare i permessi di soggiorno per tenere i migranti in Italia e portarli a Ronsarno e Nardò”.

Quindi questi migranti non transitano nemmeno per i centri di accoglienza ma giungono direttamente nei ghetti per essere smistati?

“Sì, questo modo di reclutamento rappresenta il 30 per cento della manodopera. Poi c’è il reclutamento nei centri accoglienza e sui territori, nei centri di aggregazione; quello è il fenomeno strutturale e rappresenta un altro 60 per cento di manodopera”.

Di che numeri parliamo?

“Si tratta sempre di stime, poiché il fenomeno è sommerso, ma secondo l’ultimo rapporto di Agromafia del 2015 sappiamo che questi lavoratori si spostano da una regione all’altra in base alle esigenze. D’inverno vanno a Rosarno per la raccolta delle arance, poi in Veneto e in Piemonte per la raccolta dell’ortofrutta. Secondo le stime il caporalato colpisce 400mila lavoratori tra stranieri e italiani, gli stranieri rappresentano circa il 60 per cento del totale. Solo nelle campagne foggiane sono almeno 35mila i braccianti sfruttati”.

Esistono altre forme di sfruttamento oltre al caporalato?

“Esiste il sottosalario che nel settore agricolo colpisce anche molti italiani: le donne percepiscono sempre il 60 per cento al di sotto del salario previsto dal contratto nazionale, con una differenza salariale di genere che permane da sempre ed è un problema culturale. C’è quello che viene definito il “lavoro grigio”: molti di questi lavoratori non prenderanno mai la pensione, gli imprenditori spesso non versano i contributi e nemmeno il sussidio di disoccupazione è possibile. C’è una forte evasione contributiva a danno dei braccianti e dello stato”.

In passato hai ricevuto minacce per le battaglie che hai condotto, anche lo scrittore Roberto Saviano ha preso a cuore la tua causa. Sei ancora in pericolo?

“Da quando ho iniziato non passa mese che non riceva delle minacce. Il periodo più delicato è stato l’anno scorso quando per fortuna ho evitato una sparatoria. Ci si scontra necessariamente con interessi forti quando si intraprendono queste lotte, ma è il prezzo da pagare”.

Qual è la tua impressione rispetto al modo italiano di affrontare queste problematiche, anche dal punto di vista politico?

Il problema di questo paese è che tutti fanno finta di non vedere: se oggi l’illegalità ha raggiunto questi livelli, se oggi si vive questa condizione, è perché per decenni lo stato non ha fatto nulla. Non c’è sostegno a chi denuncia. Anche quando Saviano parlava della mafia al nord, nessuno lo prendeva sul serio, poi, con il tempo, il fenomeno è stato riconosciuto”.

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