Giulio Regeni e il silenzio assordante di coetanei e intellettuali
Fiorenza Loiacono, dottoranda in Educazione alla politica presso l'Università degli Studi di Bari, si interroga sulle reazioni alla morte del giovane studioso italiano
Alekos, cosa significa essere un uomo? – Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità (O. Fallaci, Intervista con la storia)
Giulio Regeni era un essere umano, secondo la definizione di Alekos Panagulis, resistente greco, torturato ferocemente e condannato a morte nel 1968 dal regime militare del colonnello Georgios Papadopoulos.
Graziato in seguito alle pressioni della comunità internazionale, negli anni della restaurata democrazia Panagulis non cessò di accusare coloro che avevano collaborato con la dittatura, reintegrati nel nuovo governo.
Minacciato di morte più volte, fu infine assassinato. Le indagini ufficiali parlarono di incidente automobilistico. Giulio richiama Monteiro Rossi, il personaggio ritratto in Sostiene Pereira (A. Tabucchi, 1994) che si oppone al regime salazarista nella Lisbona degli anni Trenta, il simbolo dell’individuo che resiste alla dittatura e contro cui il potere si scaglia con ferocia, annientandolo.
Pensiamo al Cile di Augusto Pinochet, all’Argentina di Jorge Rafael Videla, all’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi, uomini-generali che hanno inteso e intendono lo Stato come campo di battaglia, dove seminare violenza, terrore e morte.
Monteiro Rossi scriveva necrologi per il Lisboa per racimolare qualche soldo, ma di morte non sapeva parlare: “[…] lei, dottor Pereira, lo sa cosa gridano i nazionalisti spagnoli?, gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita”.
I suoi annunci funebri erano reputati dall’anziano giornalista “impubblicabili” perché sovversivi: ora denunciavano l’assassinio del poeta Federico Garcìa Lorca da parte degli uomini di Francisco Franco, ora il bellicismo dell’italiano Filippo Tommaso Marinetti, che nel Manifesto Futurista del 1909 aveva esaltato i miti della violenza e della guerra.
Pereira, “individualista anarchico e apolitico”, li leggeva ogni volta con “un tuffo al cuore”: si vedeva stanco, vecchio e – lui sì – pensava continuamente alla morte: “forse, non viveva, ma era come fosse già morto. […] la sua era solo una sopravvivenza, una finzione di vita”.
Quelle parole, tuttavia, avevano il potere di smuovere il disimpegnato quieto vivere in cui languiva. L’incontro con Monteiro scrolla Pereira dallo stato di torpore, spingendolo all’impegno civile: quando il giovane muore pestato a sangue dalla polizia politica portoghese, il vecchio giornalista scrive un articolo per ricordarlo e per denunciare al Paese la violenza commessa.
Con la morte di Monteiro Rossi, egli scopre la sua anima, cioè la sua coscienza, un lavoro che l’Italia non fa dopo l’assassinio politico di Giulio Regeni. Morta come il Pereira della prima ora. Mentre chiedono la verità, le istituzioni non hanno ritenuto opportuno e sentito la necessità di soffermarsi sulla figura del giovane studioso, avviando una profonda riflessione pubblica, di valenza etica e politica, sull’ingiustizia che ha decretato la fine della sua esistenza, sul senso di un lavoro rivolto alla vita e alla difesa degli ultimi, che ha ricevuto in cambio la tortura e la morte.
Giulio Regeni osservava, studiava, denunciava lo stato di oppressione in cui versano milioni di lavoratori egiziani, impegnandosi per il cambiamento.
Sui social network la sua storia appare già consegnata alla memoria, nel dibattito pubblico il suo assassinio è trattato quasi esclusivamente nei termini dell’affare giuridico e diplomatico, mentre il linguaggio dei media si tiene sulla forma più che sulla sostanza: “i contatti sono la chiave del delitto” si scrive, non la lotta per i diritti umani.
Il suo lavoro, la sua attenzione agli oppressi dovrebbero essere portati come esempio – è accaduto encomiabilmente nel caso di Valeria Solesin, i cui studi riguardavano la condizione femminile – ma su di essi lo Stato italiano non ha speso una sola parola.
La notizia particolarmente cruenta della sua morte è fluita velocemente nel panta rei degli accadimenti riguardanti il terrorismo, le alleanze, gli interessi economici, le “morti collaterali” – un aspetto sottolineato da Ida Dominijanni su Internazionale.
Quasi nessuna riflessione da parte istituzionale sul massacro in solitudine di un individuo che perseguiva istanze di giustizia sociale. Eppure – lo evidenzia Christian Raimo – abbiamo un presidente del Consiglio che lega la sua vocazione politica all’interesse per i diritti umani e che nel 2012 ha citato come propri modelli di riferimento Nelson Mandela e la blogger Leena Ben Mhenni, “una delle voci principali della primavera araba”.
Ben Mhenni, durante la Rivoluzione tunisina del 2011, denunciava le violenze del governo contro i manifestanti, come Giulio scriveva i suoi articoli – non sempre pubblicati, nonostante il valore derivante anche dal rischio assunto – per segnalare l’annullamento dello spazio di libertà per le organizzazioni sindacali egiziane.
È forse l’Italia troppo vecchia, troppo morta, per poter attuare una scoperta dell’anima?
Dov’è la voce della generazione di Giulio, che provi a dire parole diverse da quelle umanamente vuote del cinico calcolo politico-diplomatico (“Piaccia o no, l’Egitto, in questo momento, è un alleato, non un nemico”, ha scritto Sergio Romano sul Corriere della sera) o da quelle del sentimentalismo inopportuno, insipiente, paternalistico e dolente per i giovani che “andrebbero maggiormente protetti” pur disponendo “di ottimi strumenti”, come gli smartphone (Beppe Severgnini, sempre sul Corriere)?
Lo strumento più importante di cui era dotato Giulio era invece il pensiero. Giulio non era più vulnerabile e bisognoso di protezione di qualsiasi altro essere umano trattato come tale.
Questo sonno delle coscienze evidenzia con più forza l’assenza di un ruolo deciso e libero degli intellettuali nell’Italia odierna, che levino la voce del dissenso, perché se gli Stati impongono la forza, gli intellettuali dovrebbero vivere al di fuori del suo dominio – come sostiene Simone Weil – creando le condizioni perché gli oppressi si emancipino, liberandosi dallo stato di sottomissione in cui si trovano.
Coloro che di solito parlano e scrivono lungamente, questa volta sono rimasti in silenzio. Giulio pensava alla vita, e l’amava, come Monteiro Rossi, come Alekos Panagulis, preoccupandosi al pari di loro di quella degli altri, opponendo l’impegno e la resistenza alla violenza di chi non riconosce gli esseri umani e ne distrugge la dignità fino alla morte.
Dal 2013, sotto il governo del generale al-Sisi, in Egitto sono state arrestate circa 40mila persone, 1.400 risultavano uccise alla fine del 2014, centinaia sono scomparse.
Il paese dovrebbe fremere moralmente di fronte all’assassinio politico di Giulio, sentendo l’indignazione dell’anima, non per lo smacco da parte egiziana, ma per la violenza agita contro un individuo libero, impegnato attraverso lo studio e la conoscenza sul fronte della giustizia e del rispetto dei diritti umani.
Pensare al lavoro di Giulio aiuta a ridare linfa alla coscienza, a rialzare la testa, a non cadere nel silenzio e a denunciare, sempre, le violazioni e i soprusi, perpetrati contro se stessi e gli altri. Come scrive Cristina Campo in Il flauto e il tappeto, “solo con l’uomo trasformato, si trasforma il mondo”.
A Giulio, 16.02.2016 – * Fiorenza Loiacono, dottoranda in Educazione alla politica presso l’Università degli Studi di Bari