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E se l’attacco di Nizza non fosse una questione religiosa?

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L'opinione di Fulvio Scaglione

La reazione alla strage di Nizza,il massacro di 84 persone compiuto sul lungomare dal francese di origine tunisina Mohamed Bouhlel, spiega meglio di qualunque analisi sociologica o politica perché stiamo perdendo la guerra al terrorismo islamico.

Non vi è dubbio, infatti, che l’esito sia quello: dal 2000 a oggi le vittime del terrorismo sono cresciute di nove volte; tra 2013 e 2014 gli attentati kamikaze sono cresciuti del 18%; tra 2013 e 2014 i Paesi che hanno avuto più di 500 morti per atti di violenza terroristica sono passati da 8 a 13. Il tutto a dispetto della nostra schiacciante superiorità in termini di potenza economica, militare e tecnologica.

Perché Nizza? Basta leggere i giornali di oggi. Le modalità della strage non hanno alcun punto di contatto con quelle di solito impiegate dai terroristi dell’Isis. Niente esplosivo, niente mitragliatori, nessun kamikaze, anche se forse Bouhlel aveva immaginato di non poter uscire vivo dalla Promenade des Anglais. Nessuno o quasi, però, è riuscito a trattenersi: c’è chi parla di guerra di religione, chi annuncia piani precisi dell’Isis per attaccare l’Europa, chi spiega che si tratta di una strategia per scatenare la guerre civile in Europa.

E se si trattasse di molto meno? Bouhlel non era religioso ma aveva tre figli e stava divorziando. Troppo banale. Ma banale era anche il caso di Omar Mateen, l’uomo di origine afghana che il 12 giugno uccise 49 persone in un club gay di Orlando (Florida).

Anche allora i giornali si riempirono di dotte analisi finché non saltò fuori che Mateen era anche lui un gay, però disturbato fino alla follia, e la notizia fu fatta sparire. Anche se si sarebbe dovuto indagare sul fatto che Mateen, pur essendo sulla “lista nera” su cui l’Fbi registra i cittadini americani “ragionevolmente sospetti” di terrorismo e collaborazione con terroristi, era comunque riuscito a procurarsi un fucile semi-automatico, in pratica un’arma da guerra.

Ancor più banale il caso di Yassin Sahli, francese di origine marocchina, che a Saint-Quentin-Fallaviern, piccola località francese dell’Isere, che il 25 giugno del 2015 decapitò il suo capo inneggiando all’Isis. Intervenne persino il presidente Hollande a parlare di terrorismo, saltò fuori che Sahli e la sua vittima avevano ferocemente litigato il giorno prima.

D’accordo, i “veri” terroristi islamici ci hanno colpito con ferocia un numero di volte bastante a renderci ansiosi, preoccupati, nevrotici. E’ normale che i nostri riflessi siano ormai condizionati. Questo, però, vale per il cittadino qualunque, per il signor Rossi. Per l’industria della comunicazione questo non vale.

E bisogna avere il coraggio di dire che sul terrorismo islamico opera da lungo tempo una vera “industria della scemenza” che ci fa danni gravissimi. Dai tempi di Samuel Huntington (“Lo scontro delle civiltà”) e dei suoi epigoni-divulgatori alla Oriana Fallaci continuiamo a schiantarci nel solito vicolo cieco: preferiamo demonizzare tutti i musulmani (cultura inferiore, naturalmente assetati di violenza, d’altra parte leggono il Corano…) e trasformare il terrorismo in una aerea questione “culturale” piuttosto che prenderlo per ciò che è: un fenomeno politico che ha mandanti e fini.

Con il primo atteggiamento non si cava un ragno dal buco: come si combatte un “fenomeno culturale” vecchio di un millennio e mezzo? Come lo affrontiamo in un mondo che ci è piaciuto rendere globalizzato, quindi di fatto incontrollabile? Come ci rapportiamo a un miliardo di musulmani, cioè a una parte della popolazione mondiale che è in crescita e che nel 2050, ci dicono i demografi del Pew Research Center, per la prima volta nella storia pareggerà per numero i cristiani? Nessuno risposta. E infatti il terrorismo vince. D’altra parte, una visione in cui chiunque (purché sia musulmano per origine, anche se non praticante come il nizzardo Bouhlel o l’americano Mateen) è un terrorista potenziale o effettivo non offre alcuna speranza di vittoria, e nemmeno di azione concreta.

Si potrebbe più utilmente andare a caccia dei mandanti del terrorismo per sventare i loro fini. Ma non si fa. E qui si capisce bene perché Huntington e la Fallaci e i loro simili siano diventati così “intoccabili”, perché la nostra “industria della scemenza” non dorma mai: perché servono alla politica a far finta di niente.

Ieri, poche ore prima della strage di Nizza, ho ascoltato il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti dire cose chiarissime sul terrorismo durante l’East Forum 2016, dedicato al tema “La nuova Europa: migrazioni, integrazione e sicurezza”. Roberti, uno dei più stimati investigatori di tutta Europa, ha detto in sostanza: i terroristi non arrivano con i migranti; sappiamo che i soldi per finanziare l’estremismo e il terrorismo islamico arrivano dai Paesi del Golfo Persico; indagando abbiamo trovato evidenze del fatto che in quei Paesi ci sono anche strutture di supporto al terrorismo.

Sappiamo da dove partono i soldi, e con questo possiamo intuire anche i fini. Che altro ci serve per capire che qui non c’è alcun progetto di attacco all’Europa o di guerra di religione in atto?

Se chi finanzia l’Isis è lo stesso cui abbiamo venduto mezza Milano o una parte consistente del “made in Italy”, e altrettanto è successo in Francia e in Gran Bretagna, è concepibile che questo stesso si proponga di mandare a monte i propri lucrosi investimenti?

Quanto a lungo faremo ancora finta di non capire che l’Occidente parla tanto dei terroristi ma troppo poco dei loro padroni? E che, in altre parole, con una mano colpiamo i manovali della violenza e della paura e con l’altra accarezziamo i loro finanziatori? Ma demonizzare i musulmani e scambiare un demente per un agente segreto è più comodo. A giudicare dal via vai di primi ministri europei nel Golfo Persico, forse anche più redditizio.

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