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Home » Ambiente

L’esperta di spreco alimentare Ludovica Principato spiega a TPI perché il futuro del mondo si decide (anche) a tavola

Immagine di copertina
Credit: designpics / AGF

“I sistemi agroalimentari sono vittime e carnefici dei cambiamenti climatici. Ma adottare una dieta sana e sostenibile potrebbe ridurre di quasi il 50% le emissioni”. La docente di Economia e Gestione delle Imprese e Sostenibilità all’Università Roma Tre svela a TPI il legame tra cibo, salute, ambiente ed economia: "Le cattive abitudini causano 8.000 miliardi di dollari di costi nascosti, con impatti rilevanti sulla spesa sanitaria, pubblica e individuale"

Professoressa Principato, in che modo ciò che mettiamo nel piatto è connesso non solo allambiente, ma anche alleconomia, alla salute pubblica e alle disuguaglianze globali?
«I sistemi agroalimentari sono sia vittime che carnefici del cambiamento climatico. Così come siccità, deforestazione, erosione del suolo, inondazioni e altri fenomeni hanno un impatto sull’agricoltura e la produzione di cibo, tutte le attività economiche legate alla catena del valore alimentare, dalla produzione agricola fino alla distribuzione e al consumo di alimenti, sono responsabili dal 30 al 37% delle emissioni globali di gas serra derivanti da attività antropogeniche. Visto che, purtroppo, le risorse della Terra sono finite, dobbiamo fare molta attenzione a come produciamo il cibo. Anche perché entro il 2050 la popolazione mondiale arriverà a 9,7 miliardi persone».
La sfida è sfamarle tutte con un’alimentazione sostenibile. Ma come?
«Bisognerà raggiungere standard ottimali di eguaglianza nutrizionale per tutti, impattando il meno possibile sull’ambiente».
Qui entriamo nel campo delleconomia.
«Oltre ai costi economici legati alla produzione, al trasporto e alla distribuzione del cibo dobbiamo cominciare a considerare anche quelli legati alla salute. Le cattive abitudini alimentari causano, secondo la Fao, 8.000 miliardi di dollari di costi nascosti. Circa il 70% deriva dall’impatto sulla salute legato a scelte alimentari sbagliate, che causano patologie non trasmissibili come cancro, malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2, con impatti rilevanti sulla spesa sanitaria, sia pubblica che individuale».
Vale solo per i Paesi più ricchi?
«È particolarmente vero per i Paesi occidentali ma negli ultimi anni assistiamo anche al cosiddetto “doppio fardello della malnutrizione” nel Sud del mondo. Prendiamo ad esempio i casi del Messico o dell’Indonesia: qui una parte della popolazione soffre di insicurezza alimentare, dovuta alla mancanza di un adeguato accesso al cibo, mentre l’altra è in sovrappeso o obesa perché ha accesso ad alimenti meno sani, più densi di calorie e poveri di nutrienti. Per questo il tema dei costi legati alla salute tocca tutto il Pianeta. Circa il 9% della popolazione mondiale, quasi 750 milioni di persone, soffre la fame. Al contempo, nel 2022, il numero di soggetti obesi nel mondo era pari a un miliardo, una cifra quadruplicata dal 1990».

Come stanno cambiando le abitudini dei consumatori e i metodi di produzione del cibo?
«C’è una maggiore attenzione, anche in Italia e soprattutto tra i giovani, alle cosiddette “diete flexitariane”, che non sono necessariamente vegetariane o vegane ma che, al pari di altri regimi sani e sostenibili, prevedono un minore consumo di proteine di origine animale, in particolare di quelle provenienti da allevamenti intensivi di bovini. Anche se la riduzione dei consumi di carne è un dato senz’altro positivo, ovviamente non basta».
Perché?
«Cito spesso uno studio del Wwf, così come una serie di ricerche dell’Ipcc e della Eat-Lancet Commission, secondo cui una dieta ricca di alimenti di origine vegetale, come verdura, frutta, cereali integrali e legumi, e povera di alimenti di origine animale non solo è più salutare ma è anche associata a impatti ambientali minori».
È la dieta Mediterranea.
«La dieta Mediterranea è uno dei principali esempi di regimi alimentari sani e sostenibili perché, secondo le definizioni della Fao e dell’Oms, ha un basso impatto ambientale, producendo minori emissioni inquinanti, ricorrendo a un uso efficiente di acqua e suolo e tutelando la biodiversità; è nutrizionalmente adeguata, sicura e salutare, coprendo tutti i bisogni nutrizionali senza eccessi; è accessibile, nel senso dell’accessibilità fisica del cibo per le persone; ed è economicamente equa, perché tutti tendenzialmente possono permettersela».
Eppure sembra andare sempre meno di moda, proprio nel Mediterraneo. Perché?
«Quest’anno, insieme ad alcuni colleghi dell’Università Roma Tre, grazie ai fondi per un progetto scientifico finanziato dal Mur in collaborazione con l’Università della Tuscia, ho pubblicato sulla rivista Environmental Science and Policy una revisione sistematica della letteratura scientifica riguardo le barriere e i facilitatori comportamentali in materia di scelte alimentari nelle diete sane e sostenibili. Tra le altre sono emerse barriere di costo, di tempo e di educazione».
Ci fa un esempio?
«Nel Centro-Sud Italia dove, specie tra i bambini e adolescenti, si registrano tassi di obesità e sovrappeso allarmanti, le persone hanno poco tempo per cucinare mentre le conoscenze culinarie e sugli alimenti si stanno perdendo. La mancanza di tempo, informazioni e denaro non agevola l’adozione di una dieta sana ed equilibrata».

Per molti mangiare in modo sano e sostenibile è troppo costoso.
«Eppure uno studio realizzato dall’Università di Napoli Federico II mostra come dedicare maggiore attenzione alla pianificazione della spesa e più tempo alla preparazione dei pasti, optando per una dieta sana e sostenibile, possa ridurre del 13% l’esborso economico mensile di una famiglia e fino al 21% l’impatto sui costi sanitari legati alle malattie cardiovascolari. Non dobbiamo dimenticare infatti che i costi di una dieta poco sana sono poi associati a spese mediche ingenti, non solo pubbliche ma individuali».
Cosa possiamo fare allora?
«Si stima che un cambiamento comportamentale globale verso una dieta flessibile, sana e sostenibile, con un minor contenuto di carne e che al contempo soddisfi tutte le raccomandazioni nutrizionali e di fabbisogno calorico, potrebbe ridurre di quasi il 50% le emissioni di gas serra associate ai sistemi agroalimentari».
Farebbe bene a noi e anche all’ambiente.
«Richiedendo una notevole quantità di risorse naturali, il settore dell’allevamento (carne, uova e latticini) genera circa il 14,5% delle emissioni globali di gas serra e utilizza il 70% dei terreni agricoli disponibili. La scelta di diete ad alto contenuto di alimenti di origine vegetale aiuterebbe quindi a ridurre la perdita di biodiversità globale dal 5% fino al 46%».

Nel nostro piccolo, invece, cosa consiglia?
«Prima di tutto dovremmo cercare di non sprecare il cibo a nostra disposizione: fino a un terzo degli alimenti prodotti lungo l’intera filiera agroalimentare va perduto, soprattutto nella fase agricola e del consumo finale. Nel 2021, insieme ad alcuni colleghi, avevo pubblicato sulla rivista Industrial Marketing Management un’altra revisione della letteratura scientifica in materia di spreco alimentare a livello domestico per capire i comportamenti sbagliati che ci portano a sprecare (circa il 30% del totale degli sprechi di cibo lungo l’intera filiera alimentare è dovuto proprio alle famiglie). Un fenomeno che, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), accomuna sia Paesi occidentali, dove si registra una sovrabbondanza alimentare, che quelli in via di sviluppo, maggiormente afflitti da povertà e insicurezza alimentare».
Ci fa un altro esempio concreto?
«Quasi il 20% degli sprechi deriva da una comprensione errata delle date di scadenza: le diciture “consumare preferibilmente entro” e “da consumare entro” sono ben diverse. Inoltre può aiutarci anche una maggiore pianificazione: chi non fa la lista della spesa è generalmente portato a comprare più di quanto gli occorre. Ma anche un mancato calcolo dei pasti che verranno consumati in casa rispetto a quelli previsti fuori può provocare sprechi. Un altro tema poi è legato a come conserviamo il cibo che acquistiamo e al marketing serrato, che ci spinge a comprare sempre di più».
Così si crea anche un problema di rifiuti.
«Da una ricerca che abbiamo portato avanti con l’Università della Tuscia sulla base di dati Eurostat è emerso che chi opta per il compostaggio dei propri rifiuti alimentari tende a sprecare meno. Non c’è un nesso di causalità e non sappiamo perché, ma probabilmente differenziare i rifiuti alimentari ci fa capire quanto sprechiamo e banalmente ci rende più attenti. Motivo per cui, come emerge dai dati, le persone che vivono in campagna tendono a sprecare meno cibo rispetto a chi vive in città. Anche qui non conosciamo un nesso causale ma possiamo ipotizzare che chi vive in un ambiente rurale, spesso caratterizzato dall’autoproduzione di cibo, da community garden, etc., tende ad avere maggiore consapevolezza del valore degli alimenti sotto tutti i punti di vista: economico, ambientale e anche temporale, nel senso di quanto c’è voluto per farlo crescere».

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